MEDIAZIONE SCOLASTICA AREA STUDENTI

di Alessandra Colombara Centro Studi e Ricerche per la mediazione Scolastica e Familiare ad Orientamento Sistemico, Castellanza (VA)
alessandracolombara@fastwebnet.it



Per far comprendere meglio come al Centro Studi e Ricerche (VA) operiamo attraverso progetti di mediazione all’interno della scuola, approfondirò, descrivendo nei dettagli obiettivi, contenuti, metodi, i moduli riguardanti l’area studenti; in particolare il mio obiettivo è quello di descrivere il progetto realizzato presso una scuola media della provincia di Milano.

Quando ho iniziato il mio lavoro di mediazione tra pari ero piena di entusiasmo, di incertezze e di preoccupazioni; per questo mi ancoravo un po’ rigidamente allo schema generale del progetto, alla traccia prestabilita. Poco a poco, acquistando sicurezza, ho imparato invece ad utilizzare il canovaccio generale in modo più flessibile, concedendomi maggiore attenzione al “qui ed ora” e sperimentando l’introduzione di nuove metodologie.

Linee generali del progetto di mediazione tra pari

Il progetto di mediazione tra pari di cui desidero raccontare è stato rivolto a tutte le classi prime, cinque classi per un totale di circa 100 alunni.
I motivi per cui si sono privilegiate le classi prime sono vari: innanzi tutto se si avvia un progetto all’interno di una classe prima si ha eventualmente, in seguito, l’opportunità di accedere ai livelli successivi di approfondimento che il progetto prevede: consente cioè di avere maggiori spazi e tempi da dedicare al diffondersi di quella cultura della mediazione che rimane per noi obiettivo fondante.

Nel dare avvio ai nostri lavori un problema che ci siamo posti è stato quello di stabilire quando, cioè a quale età, sia opportuno ed efficace iniziare a proporre questo tipo di progetto. La nostra esperienza ci insegna, in questo confortata anche dall’esperienza e dal parere di autorevoli autori americani, che l’età “giusta” potrebbe essere addirittura quella pre-scolare. Da alcune ricerche ed esperimenti condotti in tal senso pare dimostrato infatti che porre attenzione, da parte della scuola, a temi quali la mediazione, la cooperazione, la risoluzione positiva di conflitti, le interazioni interpersonali…. possa produrre, a lungo termine, effetti benefici.

Il setting da noi utilizzato per la realizzazione degli incontri con le classi è quello “a cerchio”.
Presso la scuola della provincia di Milano alla quale ho già fatto riferimento, ma in genere presso ogni scuola che ne abbia la possibilità, abbiamo chiesto e ottenuto di poter utilizzare come spazio quello dell’aula video. Questa scelta è risultata funzionale. Avere a disposizione uno spazio “neutro” ci pare infatti aver facilitato il raggiungimento degli obiettivi proposti. I ragazzi ci sono apparsi meno distratti; inoltre il setting “a cerchio” consentendo loro di guardare in viso tutti i compagni ha facilitato la comunicazione e reso più agevole il dialogo. Qualcuno di loro era inizialmente un po’ sorpreso del setting proposto ma ben presto l’imbarazzo è stato superato.
Essere in aula video ci ha consentito inoltre di avere a disposizione strumenti tecnologici dei quali a volte ci serviamo come ad esempio videoregistratori o videocamere.
(il videoregistratore ci è utile quando riteniamo opportuno vedere insieme alla classe un film, spunto di riflessione per introdurre il tema della giornata, la videocamera la utilizziamo, dopo aver avuto dalle famiglie opportuna autorizzazione, per riprendere eventuali simulate di situazioni conflittuali che la classe propone).

Solitamente la conduzione è affidata ad un unico operatore affiancato da educatori.
Il conduttore è essenzialmente un facilitatore; suo compito è quello di rendere visibili dinamiche relazionali, agevolare la comunicazione, suggerire modalità di risoluzione dei conflitti che vadano nella direzione della mediazione e della cooperazione.
La presenza degli educatori o di eventuali co-conduttori è importante in eventuali lavori da svolgere in sottogruppi.

Per la prima annualità, quella definita di sensibilizzazione alla mediazione, il progetto da noi proposto prevede sei incontri per classe di due ore ciascuno. La cadenza degli incontri è in genere settimanale.
I nostri incontri si inseriscono nel “normale” orario scolastico e vanno a sostituire, per alcune ore, le materie scolastiche previste. Non sono presenti le insegnanti di classe.

I progetti di mediazione tra pari che, ormai da anni, realizziamo all’interno dell’istituzione scolastica si pongono, in generale, i seguenti meta-obiettivi1:

vsensibilizzazione all’ascolto reciproco e al dialogo
vosservazione e analisi delle modalità di relazione all’interno delle classi
vesplicitazione e mediazione di eventuali criticità e conflitti presenti all’interno delle classi
vintroduzione alle tecniche di mediazione

Naturalmente il raggiungimento di tali meta-obiettivi, prevede che via via siano raggiunti micro-obiettivi, legati spesso alle particolari caratteristiche, criticità, dinamiche relazionali e risorse proprie di ogni singolo gruppo classe.

Nel suo dipanarsi il progetto segue all’incirca la seguente traccia:

A
vdalla costruzione della conoscenza reciproca (mediatore- gruppo classe)
valla “valutazione” del clima relazionale e del clima emotivo all’interno del gruppo classe
valla costruzione di un linguaggio comune

B
vdalla riflessione condivisa su situazioni conflittuali “esterne”
valle criticità della classe
valla proposta di tecniche di mediazione dei conflitti

I percorsi di mediazione scolastica tra pari che proponiamo sono dunque costituiti da due momenti differenti: un primo momento che possiamo definire di FORMAZIONE ALLA MEDIAZIONE e un secondo momento di MEDIAZIONE DEL CONFLITTO.
I momenti di formazione alla mediazione sono, come si accennava, propedeutici alla mediazione “vera e propria”. Durante la mediazione del conflitto il mediatore utilizzando le tecniche della mediazione, tenta di far evolvere positivamente le criticità evidenziate dagli alunni; fa si che ognuna delle parti in conflitto abbia a disposizione un tempo sufficiente per esprimere la propria punteggiatura sul conflitto “in corso”, sposta l’attenzione dai fatti alle emozioni sottostanti, aiuta le parti ad identificare un obiettivo comune, definisce quali strumenti/risorse ci sono a disposizione per il raggiungimento dell’obiettivo condiviso, fissa futuri tempi di verifica.
All’interno del contesto scolastico, prima che si possa giungere alla mediazione così intesa è però, a nostro avviso, più che mai necessario lavorare a lungo sulle premesse alla mediazione; premesse che poi tale percorso rendono possibile. E’ proprio per questo che i percorsi di mediazione tra pari prevedono incontri preparatori di FORMAZIONE ALLA MEDIAZIONE.

Primo obiettivo del lavoro condotto in classe e primo passaggio necessario è dunque quello di conoscere la classe, farsi conoscere e porre le basi per l’instaurarsi di una relazione significativa. Nel rispetto dei tempi dei ragazzi, all’interno dei percorsi di formazione alla mediazione utilizziamo una metodologia ed alcuni strumenti che ci aiutano da un lato a “portare a galla”/ rendere visibile il clima relazionale e il clima emotivo che in classe si respira e dall’altra parte ci aiutano a costruire le premesse all’ASCOLTO, al DIALOGO e al RICONOSCIMENTO DELL’ALTRO.

Contemporaneamente lavoriamo per costruire con la classe un linguaggio comune. Ciò significa iniziare a condividere con il gruppo il significato di parole come Ascolto, Dialogo, Conflitto che in quanto nominalizzazioni possono “trarre in inganno”. E’ importante, ad esempio, non dare per scontato che con la parola “ascolto” si intenda tutti esattamente la stessa cosa. Domandando agli alunni di una classe quando ognuno di loro si è sentito ascoltato o come/in base a quali segnali ognuno di loro sa/comprende di essere ascoltato, otterremo risposte molto differenti tra loro. L’esperienza dell’ascolto, del dialogo o del conflitto è infatti profondamente diversa per ognuno di noi, legata alla storia personale di ognuno, alle differenti priorità che ognuno dà nel selezionare le proprie percezioni, nel dare ad esse una “forma”, nell’essere guidati prevalentemente da un canale rappresentazionale oppure da un altro.
Dare “per scontato” che quando all’interno di un gruppo classe (ma non solo qui, ovviamente) si parla si “ascolto” si intenda tutti esattamente la stessa situazione ci fa incorrere nel rischio di grossolani errori comunicativi.
Esplicitare e chiarire il significato che per ognuno hanno almeno alcune Parole Chiave che guideranno tutto il successivo intervento ci pare importante. Questo ci consente inoltre di fare interagire da subito in modo attivo gli alunni tra di loro e di osservare come “si muovono “ le dinamiche relazionali all’interno della classe.

Prima di chiedere alla classe di entrare nel merito di eventuali criticità presenti, introduciamo solitamente l’argomento partendo da situazioni che potremmo definire “esterne”, situazioni che cioè non riguardano direttamente la classe ma “altri”: conoscenti, amici, protagonisti di un film visto insieme. Questo ci consente di non essere troppo invasivi, di entrare in punta di piedi all’interno delle dinamiche di classe.
Dopo che il tema del conflitto o di eventuali criticità è stato introdotto, non è difficile che il gruppo classe inizi a raccontare di sé: difficoltà di comunicazione, litigi, contrapposizioni, esclusioni… Perché ciò possa accadere è comunque indispensabile, come si diceva, che tra conduttori e gruppo classe si sia stabilito “un minimo di relazione”. Che cosa si intenda con “un minimo di relazione” non è cosa semplice da spiegare; spesso in questo il conduttore si affida alle proprie percezioni relative al clima relazionale all’interno della classe. E’ certo che siccome il numero di incontri per ogni singola classe che il nostro progetto prevede non sono molti, spesso ci accade di sentire “fortemente” l’urgenza di accelerare i tempi della relazione.
Come molta letteratura pedagogica ci ha insegnato, non può esserci reale apprendimento al di fuori della relazione. Anche noi siamo convinti che l’apprendimento sia strettamente veicolato dalla relazione: senza questa e cioè senza un clima relazionale che lo consenta, una dovuta attenzione alle dinamiche di gruppo e al Riconoscimento dell’Altro, non è possibile trasmettere o apprendere nessuna tecnica mediatoria.

A seconda del tipo di criticità che si presenta noi sappiamo poi che sono possibili percorsi mediatori differenti, che seguono cioè tappe e tecniche propri.

Le teorie da noi apprese riguardo la mediazione vengono trasferite e contestualizzate all’interno del sistema scuola.

Quando ci pare che una classe rischi di trasformare un alunno in “capro espiatorio”, quando quindi la criticità da noi evidenziata non riguarda due particolari alunni ma un alunno/a e il resto della classe ( o la maggioranza di questa), interveniamo attraverso un intervento di CULTURA DELLA MEDIAZIONE o mediazione “allargata”. In questo caso “protagonista attiva” della mediazione è tutta la classe; ognuno viene sollecitato ad esprimere opinioni e vissuti e si tentano di costruire, in un clima di ascolto, altre possibilità e modalità relazionali, quelle che fino a quel momento la classe non ha intravisto né sperimentato.

La via della MEDIAZIONE RIPARATIVA si percorre quando viene esplicitato un fatto di “particolare rilievo” che ha procurato ferite a livello identitario.

La MEDIAZIONE TRA PARI si può percorrere quando ci sono due “parti in causa”, si è evidenziata una criticità o una situazione conflittuale, c’è disponibilità di mediazione tra le parti ed è subito praticabile una mediazione che vada verso la COOPERAZIONE.

Non sempre queste tre forme di mediazione sono così “didatticamente” separabili”; spesso rappresentano fasi/scalini/tappe all’interno del medesimo intervento mediativo.

Alcuni aspetti metodologici

Innanzi tutto il nostro metodo di lavoro tiene necessariamente conto dell’estrema complessità del contesto nel quale si realizza. Il progetto presuppone infatti che chi conduce le ore d’aula, il facilitatore/mediatore, abbai fatta propria l’ottica della complessità; sia in grado cioè di compiere analisi a più livelli, di scegliere a quale livello di osservazione dare di volta in volta priorità: se le dinamiche relazionali che si “giocano” all’interno della classe, se il livello del “mondo di senso” che tali dinamiche sottendono e cioè il significato identitario che alcune dinamiche tradotte in azione hanno per i soggetti coinvolti, o se entrambi i livelli.
Occorre insomma certamente saper disegnare una mappa relazionale di ciò che si osserva in classe ma poi è necessario considerare quella mappa non come qualcosa di statico, fisso ed immutabile ma come un qualche cosa, un territorio, in continua evoluzione.
Adottare l’ottica della complessità significa altresì essere ben consapevoli che in quanto conduttori inseriti all’interno del contesto non si è osservatori neutri né imparziali.
Operare all’interno di un contesto classe è estremamente complesso, richiede flessibilità e contemporanea capacità di analisi a più livelli.
Il gruppo classe è, io credo per definizione, sistema complesso. In una classe si incrociano numerose dinamiche, relazioni differenti, storie differenti, caratteri differenti; si incrociano ancora relazioni di tipo “orizzontale” e “verticale”, quelle con gli adulti di riferimento che con la classe entrano in contatto. Lavorare con gruppi complessi significa avere l’occasione di “sperimentare con mano” le teorie che sui sistemi si sono apprese: totalità, non-sommatività, equifinalità, retroazione. La metodologia utilizzata necessariamente deve tener conto di tutto questo.
Certamente Lodovico comunicava molto diversamente il proprio malessere quando era in classe o quando c’era occasione di avvicinarlo “a tu per tu”: era sempre lo stesso L. ma il suo comportamento variava molto a seconda del contesto; quindi il gruppo classe nella sua totalità facilitava espressioni “particolari”.

Altro aspetto di cui metodologicamente occorre tener conto, tradotto teoricamente nel principio teorico della retroazione, è il fatto che se un alunno esplicita i propri vissuti al resto della classe, inevitabilmente da parte di questa ci sarà una ”risposta”.

La Rete di Relazioni con la quale dunque necessariamente ci confrontiamo è per noi risorsa ed occasione di riflessione.

Le relazioni che noi andiamo ad osservare, quella sorta di invisibile filo rosso che lega le persone, impalpabile “matassa” che ci fa esistere (senza l’Altro come possiamo infatti definirci?), le osserviamo attraverso particolari lenti di ingrandimento che ce li fanno chiamare: relazioni di conferma, di rifiuto, di disconferma. Se il messaggio verbale, veicolo di relazione, implica un reciproco riconoscimento noi “riconosciamo” una relazione di conferma, se uno dei soggetti implicati nella relazione, rifiuta la proposta relazionale che l’altro gli rivolge, parliamo di rifiuto, se uno dei soggetti neppure considera il messaggio relazionale contenuto/veicolato dalle parole dell’altro parliamo di disconferma.
Altra modalità di “lettura” delle relazioni è poi quella che ce li fa chiamare di simmetria o di complementarietà a seconda se li osserviamo caratterizzate da uguaglianza, rispetto alla posizione relazionale dei soggetti implicati, oppure dalla disuguaglianza, dalla differenza.

Per lavorare sulle relazioni utilizziamo spesso strumenti come ad esempio il “sociogramma”.

L’utilizzo del “sociogramma” ci consente di disegnare la mappa e quindi espli-citare/rendere visibile quella rete di relazioni di cui si diceva.
Il modo in cui utilizziamo questo strumento è il seguente:

appendiamo al muro un grande cartellone bianco e spieghiamo che da quel momento, nell’ordine preferito, ognuno dovrà alzarsi e andare a “definire” sul cartellone quali “tipi” di relazione intrattiene con i vari compagni di classe. Ognuno cioè è tenuto a “dare un nome” alla relazione che intrattiene con Marco, Anna, Giovanni, Giacomo. Con la classe concordiamo una simbologia in base alla quale definire le relazioni:
il simbolo
definisce relazioni “amicali”,
il simbolo definisce relazioni “incerte”,
il simbolo
definisce relazioni conflittuali.
L’utilizzo di pennarelli di diversi colori - il verde per relazioni “amicali”, il rosso per relazioni “incerte” e il nero per relazioni conflittuali - ci consente di avere un quadro abbastanza preciso delle dinamiche relazionali che si giocano in classe.

Qualche volta il sociogramma viene realizzato con una metodologia alternativa a quella appena descritta:
si delimita all’interno della classe uno spazio che, simbolicamente rappresenta il gruppo. Si chiede ad ognuno di alzarsi e occupare una posizione all’interno dell’area delimitata. I ragazzi si alzano uno alla volta e scelgono dove mettersi; in questo modo le amicizie, vicinanze e le eventuali lontananze/conflittualità sono immediatamente visibili.

La “lettura” successiva del sociogramma viene fatta dal gruppo classe; è cioè il gruppo classe che “spiega” ciò che la fotografia relazionale rappresenta, il mediatore si limita eventualmente a fare domande che facilitino la comprensione di quanto “disegnato”, non dà alcuna interpretazione personale.

La Ridondanza con cui le relazioni o dinamiche relazionali si presentano è per noi fonte di informazione determinante. L’osservazione di una certa dinamica relazionale diviene cioè significativa solo dal momento in cui si ripete con una certa frequenza. Se osserviamo che una volta, nello svolgersi di una precisa situazione, Luigi disconferma Marco non abbiamo nessun dato che ci faccia presumere una situazione di criticità ma se, nel suo modo di porsi in relazione con Marco, costantemente Luigi richiama modalità di disconferma ciò può innescare criticità e conflittualità.

Altra ridondanza alla quale prestiamo attenzione è quella che ci riconduce alla fissità/staticità dei ruoli ricoperti o giocati.

All’interno di una classe frequentemente i ragazzi tendono ad incarnare un ruolo fisso e rigido: il primo della classe, il disturbatore, il buffone…. Riflettere con la classe sui rischi di interpretare ruoli troppo rigidi ci offre l’occasione per ragionare sui limiti e le risorse che, per il singolo e per l’intera classe, tali ruoli rappresentano.

Un esempio di come abbiamo affrontato il tema dei vincoli e della risorse legato all’interpretazione di ruoli rigidi ce lo offre il “caso” di Francesco.

Francesco frequenta la prima C; è abilissimo nell’interpretare il ruolo del Disturbatore. Provoca adulti e compagni in ogni modo, non sta seduto, urla, non si cura degli adulti che tentano in ogni modo di imporgli la “disciplina”.
Durante il nostro primo incontro in prima C F. non sta fermo un attimo, strepita, solleva i banchi. Terminato l’incontro, di fronte all’impossibilità di contenere e gestire il comportamento di F. ci domandiamo quale possa essere il significato del suo comportamento e ci pare di scorgere un grosso disagio e una grossa sofferenza nella sua incapacità di liberarsi da un ruolo che pare diventato un vincolo senza più possibilità di scelta. La classe reagisce in modo ambivalente al comportamento di F.: a volte pare esprimere disagio, in altri momenti divertimento.
Comprendiamo che questa classe ci sta offrendo una buona occasione per riflettere sui ruoli giocati e sui significati che stanno dietro ciò.
Per l’incontro successivo prepariamo dei lavori in sottogruppo. Con l’aiuto delle insegnanti costruiamo attentamente i sottogruppi. Nel sottogruppo in cui abbiamo inserito F. proponiamo un’esercitazione strutturata in cui ognuno deve interpretare un ruolo preciso. A F. diciamo: “ tu interpreterai il ruolo del Disturbatore. Tu devi disturbare”. (Ingiunzione paradossale). F. è “spiazzato” da questa proposta ma, dopo un attimo di esitazione, accetta. Per la prima volta riusciamo a far sì che F. accetti una regola “esterna”. F. per un po’ gioca il ruolo assegnatogli, poi si stanca, lo incitiamo a fare meglio, a disturbare di più… Terminata l’interpretazione dei ruoli riflettiamo con F. e con la classe su più livelli. Innanzitutto domandiamo ad ognuno come si è sentito nell’interpretare un certo ruolo. F. esplicita la sua sofferenza e la sua stanchezza. Domandiamo allora, a lui e ai compagni del sottogruppo, quali vantaggi e quali rischi ci sono nell’interpretare in modo rigido il ruolo del disturbatore. F. evidenzia solo limiti: “sono solo, lasciato in disparte ed escluso”. I compagni riescono ad intravedere anche i vantaggi che comporta, in particolare per la classe, avere al suo interno un Disturbatore così abile: “quando non si ha voglia di fare lezione è comodo per noi che F. disturbi”, “…e poi ci fa ridere”, però qualcuno rileva: “ …alla fine però ci si stanca e allora F. diventa noioso…”

I conflitti che spesso le classi ci presentano riguardano situazioni critiche “tra pari”, tra compagni e compagne: incomprensioni, tensioni, malumori, litigi veri e propri. Talvolta tali criticità si protraggono da tempo aumentando così malumori e difficoltà di comunicazione.
Le conflittualità emergenti riguardano qualche volta anche relazioni compromesse con gli insegnanti e, più raramente, con genitori o familiari.
I ragazzi che incontriamo ci raccontano abbastanza facilmente di difficoltà esistenti all’interno delle classi: qualche volta raccontano episodi apparentemente “banali” ma che a ben vedere nascondono difficoltà reali e profonde, solitudini, esclusioni, sofferenze che, qualche volta, gli occhi degli adulti rischiano, sbadatamente, di sminuire.
Lavorando sul “sociogramma” di cui si diceva prima, domandiamo alla classe, e in particolare ai diretti interessati, se esiste all’interno della classe qualche conflitto che si desidera mediare; qualche relazione che si desidera ristabilire.

La premessa da cui si parte nell’affrontare il tema dei conflitti è che “anche il conflitto è una modalità relazionale” e che dunque, in quanto tale, non è, di per sé, “bene” o “male”, “giusto” o “sbagliato”. Ciò che a noi soprattutto preme è che i ragazzi acquisiscano la consapevolezza che di fronte a un conflitto, a una situazione che procura loro sofferenza, non hanno un’ unica alternativa, quella che più spesso la nostra cultura di appartenenza e la nostra società propongono e cioè lo scontro aperto, la violenza, oppure la fuga; esiste un’ulteriore possibilità che loro possono scegliere: la cooperazione, la mediazione appunto.
Lo spunto di riflessione che ci pare importante offrire è che dinnanzi a difficoltà, percepite da loro come enormi ed insormontabili, di fronte a conflitti che hanno fino ad ora ritenuto insanabili, esiste la possibilità di comportamenti differenti, esiste cioè la possibilità di ricomporre quel conflitto, di trasformarlo in un’occasione di crescita e cooperazione.

Metalogo
Utilizzare il metalogo significa ricorrere a domande processuali; domande non banali che aiutino l’altro a recuperare i significati e le emozioni nascoste dietro ad alcuni comportamenti o agiti. Utilizzare il metalogo significa aiutare l’altro a restituire visibilità ai propri processi di senso.

Alcuni esempi dell’utilizzo di questo “strumento” li troviamo negli interventi di mediazione precedentemente narrati. Quando domandiamo:

“Come ti sei sentita Sonia, mentre Gianfranco, riferito a te, affermava: “E’ da molestare?”, “che cosa ti ha ferito di questa affermazione?” e ancora: “ come mai, secondo te, Gianfranco si è comportato così?”

o ancora quando Nicola, dopo aver appreso il metodo, domanda al compagno:

“Perché ci tieni tanto a diventare suo amico?” e “se lui non accetta cosa significa per te?”… e ancora”ma se tu provassi a concedergli questa possibilità che cosa succederebbe?…”

stiamo traducendo una “teoria”, quella del metalogo appunto, in metodo, in strumento operativo.

Il metalogo, andando a recuperare processi identitari e di senso è spesso applicato in psicoterapia. Utilizzarlo all’interno della mediazione significa fare molta attenzione a non confondere i “contesti”.

All’interno del contesto scolastico il mediatore si pone come facilitatore, come colui che utilizza le domande come una risorsa importante da offrire all’altro. La domanda diventa così non pratica banale ma vero e proprio strumento di lavoro.

Dare nuovo significato alle esperienze vissute.
Ristrutturare le situazioni critiche o conflittuali, dare un significato ed una “lettura” differenti ad esperienze che hanno procurato dolore e sofferenza è un passaggio molto importante e non sempre così immediato.
“Lavorando” in situazioni conflittuali che spesso procurano “disagio”, ci pare importante aiutare le persone coinvolte a vedere con “lenti nuove” esperienze che, fino a quel momento, avevano interpretato come “negative”. Fare ciò significa offrire alle persone l’opportunità di dare un senso ed un significato nuovo alle loro storie; significa altresì far intravedere loro strade percorribili che, prima di allora, non ritenevano possibili e quindi, in un certo senso, restituire libertà alla loro esperienza.

Finché M. si sente semplicemente escluso dai compagni che non lo accettano all’interno del loro gruppetto, vive un senso di frustrazione e disagio ma dal momento in cui di tale disagio riesce a parlare e a condividere con la classe scopre le ragioni dell’altro e scopre altresì che proprio attraverso il suo “mettersi in gioco” è riuscito a costruire un ponte verso l’altro fatto di confronto e di chiarezza: è proprio a partire dal suo sentirsi escluso che gli è stato possibile iniziare a comunicare con l’altro e farsi accettare.

Metodi attivi
Metodologicamente, durante gli incontri con le classi, non utilizziamo lezioni frontali.
Costantemente partiamo dal recupero dell’esperienza dei soggetti coinvolti.
La premessa epistemologica è infatti quella per cui l’alunno non è “tabula rasa” da “riempire” bensì soggetto attivo del proprio apprendimento. Si “lavora” dunque per far riemergere le esperienze di vita di ognuno e per far sì che queste ultime rappresentino il punto di partenza per apprendimenti successivi.
Rispetto a temi quali Ascolto, Dialogo o Conflitto è per noi fondamentale che il “soggetto” recuperi “in primis” l’esperienza che personalmente ha fatto; c’è bisogno insomma che l’alunno, in questo caso, rifletta e si riconnetta con l’esperienza che di Ascolto o Conflitto personalmente ha compiuto. Solo partendo da una riflessione sul come ognuno di loro ha imparato ad ascoltare o a dialogare è poi possibile per noi invitare loro a sperimentare modalità differenti.

I lavori in sottogruppo e la simulata sono da noi utilizzati per facilitare un apprendimento attivo del gruppo classe.
In una dimensione di piccolo gruppo è più semplice, solitamente, narrare di sé, dei propri punti di vista e delle proprie osservazioni e anche l’interazione è resa più agevole e dinamica. La simulata, o esercitazioni simili, consentono, così ci pare, di apprendere “facendo” e quindi di apprendere come protagonisti attivi e non passivi spettatori.
Mentre, qualche volta, gli adulti che incontriamo esprimono una serie di “timori” rispetto allo sperimentarsi in una simulata, i ragazzi accettano, solitamente, la proposta con entusiasmo e facilità.

Lavorando all’interno delle classi ci siamo accorti che molto importante è tener conto del ciclo evolutivo in cui quel particolare gruppo si trova, quale è il passaggio evolutivo che sta attraversando. Non è ad esempio indifferente proporre un intervento di mediazione a inizio anno, dopo le vacanze di Natale o poco prima che l’anno scolastico abbia termine. All’inizio dell’anno scolastico il gruppo si sta formando, le dinamiche relazionali sono meno consolidate, i vissuti emotivi meno “ridondanti”, ad anno scolastico ben avviato spesso le dinamiche si sono consolidate, i ruoli irrigiditi e i vissuti emotivi maggiormente “fissati”; la conoscenza e la confidenza in compenso si sono rafforzate e il gruppo ha già una sua storia sulla quale riflettere. Spesso ci accorgiamo come giungere alla costruzione di un Noi, all’interno della classe, è un percorso accidentato, irto di difficoltà e per nulla scontato. Nell’ottica lineare dominante all’interno delle nostre scuole si centralizza l’io oppure l’altro con il quale se non ci si sente in contrasto ci si sente per lo meno in competizione. Il Noi, la cooperazione e l’ottica circolare che la sottende sono spesso inesistenti nei nostri contesti scolastici. La metodologia che noi proponiamo si pone l’obiettivo di favorire il superamento di un’ ottica rigidamente lineare e competitiva per favorire e rendere possibili spazi di incontro reale.

Esperienze di mediazione tra pari

Prima B, quarto incontro
Sono passati circa 10 giorni dall’incontro precedente in cui abbiamo lavorato sul clima relazionale all’interno della classe. Abbiamo proposto alla classe un sociogramma per rendere visibili i processi relazionali che, in modo ridondante, si esprimevano all’interno del gruppo classe. I ragazzi hanno partecipato attivamente alla “stesura” del sociogramma: ognuno ha definito, in base ad una precisa e condivisa simbologia, quale tipo di relazioni intrattiene con i compagni. In molti hanno definito “conflittuale” la loro relazione con C.; quest’ultima si è rifiutata di esporsi, non desiderando definire come interpretava la qualità delle relazioni che la stessa intratteneva con il resto della classe.
Alla conclusione del terzo incontro, tuttavia, C., piangendo, mi si avvicina dicendo: “ lo so che sono antipatica ma non so proprio che cosa fare”.

Entro in classe con in mente una “scaletta” di proposte ma al contempo con la piena consapevolezza che la suddetta scaletta, molto utile a sedare le mie ansie, dovrà essere resa estremamente flessibile e magari completamente stravolta in base alle esigenze e alle richieste della classe. Tutto ok: in questo modo anche l’imprevedibile diventa regola!

Il sociogramma proposto la volta scorsa ha “scosso alcuni animi”: i ragazzi, meno resistenti degli adulti, in genere accettano di definirsi, dal punto di vista relazionale: non lo fanno con leggerezza ma con estrema semplicità. Per qualcuno di loro, qualche volta, è più difficile: per C. lo è stato. Naturalmente, nessuno di noi ha insistito perché lo facesse ma il fatto stesso che non lo abbia voluto fare, pare pesare come un macigno (eccolo qui, tradotto in pratica: il primo assioma della comunicazione: Non si può non comunicare!).

Dunque dicevamo: quarto incontro. Entro in classe, osservo i loro visi: provo una grande sintonia con questa classe; mi guardano curiosi (così mi pare) e aspettano che sia io a prendere la parola.
Tiro le fila, li riconduco al filo rosso che lega i nostri incontri, chiedo loro come vogliono procedere: nell’ultimo incontro sono state rese visibili numerose criticità: da dove hanno voglia di partire?
Non dicono nulla, alcuni rivolgono i loro sguardi a C., anch’io le rivolgo il mio e le chiedo se ha voglia di affrontare insieme alla classe ciò che è successo nell’ultimo incontro. Inaspettatamente C. mi fa un cenno di assenso. La rassicuro sul fatto che se la riflessione si facesse per lei troppo difficile verrà interrotta.
La classe pare sollevata dal poter trattare in modo aperto la questione.

Ciò che si è fatto, in questa primissima parte dell’incontro, è stato osservare: osservare innanzi tutto il clima relazionale che si respirava in classe. In primo piano emergono le sensazioni e le emozioni del conduttore: aver imparato a non temerle troppo ma a considerarle risorse consente “comunque” di avere una sorta di guida a cui “affidarsi”.
Lavorare all’interno di un contesto scolastico risulta estremamente Complesso: le variabili in gioco sono molte: molti i sistemi da considerare, molte le storie che si incrociano, le risonanze di cui tener conto. Un sistema è molto più della somma delle sue parti: vero! E il gruppo classe è sistema non banale a tutti gli effetti.

Esprimo alla classe il malessere e il disagio che, la volta scorsa, ho colto in C.; chiedo alla classe e in particolare ai compagni che, attraverso il sociogramma, avevano definito conflittuali le loro relazioni con C., che cosa del comportamento della compagna risulta loro “fastidioso”. Parallelamente faccio attenzione a mantenere costante l’osservazione sul comportamento di C.
In classe c’è silenzio e tutti mi paiono attenti a comprendere ciò che succede. Avverto inoltre una certa tensione che, ad un certo punto, avverte ed esprime anche Luigi (mi pare in nome di molti). Luigi si muove sulla sedia, fa cadere oggetti, esprime smorfie. Gli domando che cosa sta succedendo; risponde: “…E’ per far calare la tensione!”. Valorizzo la sua affermazione dicendo che in effetti parlare in modo “serio” di questioni che riguardano direttamente la classe può procurare un po’ di tensione, anche perché non si è abituati a farlo spesso, ma che comunque se riusciremo, insieme, a parlare del disagio di Cristina ed altri compagni ne usciremo tutti un pochino più “cresciuti”.
Prima Emanuele, poi Davide e quindi Giovanni iniziano ad esprimere, a questo punto, quali sono i comportamenti di C. che più li disturbano. Nella loro narrazione, un po’ sollecitati da chi conduce, fanno esempi concreti (“mi disturba che quando ti chiedo in prestito una penna, invece di dire semplicemente “no”, ti metti a urlare come una pazza”) ma soprattutto sottolineano, da subito, che in realtà C. possiede anche molte caratteristiche “positive”, che a loro piacciono. Le dicono, riferendosi alla frase utilizzata durante l’incontro precedente dalla stessa C.: “tu non sei antipatica…è solo che in alcuni momenti hai un caratteraccio…”. C. ascolta in silenzio, pare sollevata, il suo non verbale mi dà chiaramente l’assenso per continuare il lavoro. Le chiedo se desidera dire qualche cosa, con il capo accenna ad un no.
Altri compagni intervengono spontaneamente iniziando, in un clima di sentita accoglienza, a restituire a C. aspetti “positivi” del suo carattere. Sbircio il viso di C.: sta sorridendo.

Esprimendo alla classe ciò che personalmente ho colto del malessere di C., esplicito contemporaneamente i miei vissuti e le mie emozioni. Restituisco insomma ciò che Rogers chiama Messaggi-Io. Durante i miei incontri con le classi utilizzo spesso questo aspetto della teoria rogersiana. La premessa da cui partiamo proponendo questo progetto alle scuole è infatti che per poter “agire” interventi di mediazione occorra innanzi tutto “lavorare” per creare un clima di ascolto e di dialogo; ascolto non solo dell’altro ma prima di tutto di sé stessi. Per far questo crediamo che sia fondamentale non tanto verbalizzare delle intenzioni (es: dire loro: “ è utile, qualche volta, che le proprie emozioni vengano espresse”) ma agire, partendo da chi conduce, delle modalità relazionali che vanno nella direzione dell’ascolto, del dialogo e dell’esplicitazione di vissuti ed emozioni (es: “ in questo momento sento che C. è a disagio e questo fa sentire a disagio anche me”). Personalmente credo che l’utilizzo dei Messaggi-Io mi aiuti molto; esplicitare alla classe alcuni miei disagi (che spesso corrispondono a quelli della classe) ho l’impressione – quasi fisica- che restituisca a tutti maggiore equilibrio.
Inizio questa “mediazione allargata” focalizzando l’attenzione sui comportamenti; domando cioè ai tre compagni che cosa del comportamento di C. procura loro disagio: l’intenzione in questo caso è quella di introdurre, tra le righe, la distinzione tra Identità e alcuni Agiti/Comportamenti: insomma, un po’ come dire: le persone non si possono ridurre ad un solo o a pochi comportamenti, sono molto di più; magari ci si è abituati a “vedere” e quindi ad enfatizzare “quel” tale comportamento ma è probabile che ce ne siano molti altri, tutti da scoprire, che fanno emergere lati a noi sconosciuti ed estremamente piacevoli. Sollecitare l’esplicitazione da parte dei compagni di “caratteristiche positive”, cosa che la prima B ha fatto senza particolari sollecitazioni da parte mia, va in questa stessa direzione: facilitare la consapevolezza che le persone non si esauriscono mai in un unico aggettivo; gli esseri umani non sono maschere rigide ma mosaici dalle mille tesserine: far compiere ad una classe un percorso in questa direzione non credo sia banale ma anzi punto di partenza per riflettere di Sé e di Sé in relazione ad Altri.

Condurre un percorso di mediazione all’interno di una classe non è mai “lineare” (ma forse in altri contesti lo è?): si conducono alcune persone alla mediazione ma contemporaneamente altri, all’interno della classe, “esistono” e si esprimono in mille modi. Nella breve descrizione sopra riportata si narra di Luigi che esprime il proprio stato di tensione facendo cadere oggetti e facendo smorfie. In questi casi crediamo non si possa “far finta di niente”, illudendosi di poter continuare la mediazione come se nulla fosse stato: il principio della circolarità ci insegna che un “evento” che accade in un punto del sistema si “ripercuote” sull’intero sistema: come non tenerne conto? Inoltre lavorare sul “qui ed ora” ci consente di dare “significato” a ciò che accade, di contestualizzarlo, di valorizzarlo.

Nel condurre la mediazione, costante rimane l’osservazione del non verbale: le posture, l’espressione dei volti…questo ci consente di rimanere in contatto con la classe e di ricavare importanti informazioni. C., per tutta questa prima parte dell’incontro, non si esprime verbalmente ma il suo viso, lo sguardo, il sorriso, il modo in cui siede ci stanno dicendo molto: ci sta dando il consenso a continuare il percorso faticosamente iniziato.

Forse rincuorata dall’atteggiamento dei compagni e dal clima di accoglienza dimostratale, C. finalmente interviene. Comprende come alcuni suoi comportamenti possano in effetti risultare “fastidiosi” ma dice “ mi sembra di non saper fare altro”. Esprime con molta sofferenza quest’ultimo pensiero.
Domando a questo punto, alla classe, come mai, secondo il loro parere, C. si comporta in un modo che poi la stessa comprende possa non risultare gradito ai compagni.
In molti prendono la parola per esplicitare come, a loro avviso, C. si senta isolata all’interno della classe, non stimata, sola, anche considerando il fatto che da poco tempo C. si è trasferita con la sua famiglia a B.
Mi rivolgo ora a C. e le domando se quello che hanno detto i compagni ha un senso per lei; se lo riconosce corrispondente ai suoi vissuti. C. dice che i compagni sono riusciti ad esprimere bene il suo disagio e che è proprio così: si sente sola, non riesce a legare con i compagni, si sente timida, senza cose interessanti da dire.
All’interno della classe il clima è ancora di silenzio ed ascolto. Domando come possiamo aiutare C., suggerendo loro di “inventarsi” una modalità di aiuto che parta da gesti concreti e momenti quotidiani. Obiettivo è far sì che C. si senta meno sola ed isolata e quindi riesca a sostituire i comportamenti definiti da alcuni come fastidiosi e insopportabili con altri più accettabili.
In una sorta di rumoroso brainstorming ognuno esprime delle idee, in molti suggeriscono che qualche compagno, o meglio compagna, si prenda l’incarico di “stare vicino” a C. per aiutarla ad inserirsi meglio nel nuovo contesto scolastico. Quest’idea piace anche a C.; con un po’ di fatica sceglie la compagna che desidererebbe al fianco: è Sara. Sara e anche il resto della classe concordano sulla scelta. Altre compagne si sono proposte; per facilitare la scelta abbiamo, insieme alla classe, riflettuto su quali caratteristiche deve avere chi si prende l’incarico di star accanto a Cristina e alla fine la classe ha valutato opportuna la scelta di Sara.
Sara e C, all’interno del nostro setting a cerchio, sono già sedute vicine: si sorridono.
Innanzi tutto mi preme sottolineare come sia stato fondamentale, per la buona riuscita di questo intervento di mediazione, il clima di accoglienza ed ascolto che si è creato. Creare un “buon clima” che renda possibile, nel rispetto dell’altro, raccontare di sé e dei propri vissuti ci pare obiettivo fondante: le tecniche di mediazione se non sono trasmesse e trasferite in un contesto pronto ad accoglierle risultano, a nostro avviso, aride e inefficaci.

Lo strumento principale che utilizziamo lavorando per una cultura della mediazione all’interno della scuola sono le Domande. Non domande “banali” naturalmente ma domande processuali che aiutino l’altro a prendere consapevolezza dei suoi percorsi interiori. E’ il Metalogo che ci guida nella nostra conduzione.
A un certo punto, all’interno di questa mediazione, domando alla classe “come mai, a loro parere, C. si comporta in un certo modo…” In questo caso, evidentemente, l’intento è legare/connettere il comportamento di C. (di per sé incomprensibile ai compagni) alle emozioni che sottostanno, quelle che inducono C. a comportarsi in un certo modo e che se non esplicitate rischiano di venir erroneamente interpretate.
In questo caso lavoriamo per facilitare la consapevolezza, da parte del gruppo classe ma anche della stessa C., del fatto che i comportamenti sono spesso il modo più immediato che si ha per esprimere degli stati d’animo; ognuno può “credere” o addirittura essere certo che un compagno si comporti in un certo modo perché… (es: C. si comporta con i compagni in modo aggressivo perché si sente isolata); è importante tuttavia che non ci si fermi a interpretare o a fare ipotesi ma che ci si prenda la briga di chiedere al diretto interessato. Questo è ciò che abbiamo tentato di fare domandando a Cristina quale significato avessero per lei le interpretazioni dei compagni.

Avendo C. confermato l’impressione della classe, riteniamo in un certo senso conclusa la fase della mediazione che prevede e consente alle parti di esprimere i loro punti di vista e le loro emozioni e passiamo ad una fase più “operativa”. Chiedo al gruppo classe di inventare una soluzione. E’ molto importante che la soluzione non sia data dall’”esperto” ma costruita insieme: in questo modo, io credo, si suggerisce il messaggio che non esiste La soluzione ma una soluzione che la classe ritiene possibile, in quel momento, rispetto a quella particolare criticità. I ragazzi sanno, solitamente, essere molto creativi e non faticano ad intravedere strade percorribili. La prima B si è lanciata con entusiasmo nell’elaborazione di un brainstorming; ricavare da questo una soluzione su cui la classe possa convergere rappresenta un ulteriore, parallelo, percorso di mediazione.

Criticità incontrate e risorse emerse (i risultati “ottenuti “)

…Criticità e risorse non sono da intendersi come un aut/aut ma come rilevanze contemporaneamente presenti all’interno di un circuito ricorsivo nel quale l’una si compie e si completa nell’altra… ci piace intendere risorse e criticità in un rapporto costruttivo, circolare e vicariante….
I limiti o comunque ciò che viene vissuto come criticità rimandano alle stesse matrici, ai meccanismi costruttivi che presiedono allo sviluppo della conoscenza. I limiti/criticità esprimono quell’insieme di pre-condizioni attraverso le quali si verifica ricorrentemente l’emergenza, la costituzione, la creazione di “novità”.
(M Ceruti,Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli)

Rendere visibili i risultati ottenuti attraverso questo lavoro è importante e utile. Ancora troppo spesso chi in mille modi si occupa di risorse umane fa fatica a qualificare e quantificare i risultati del proprio lavoro.

Ci pare, ragionando di “risultati”, di poter affermare che occorre distinguere due livelli: il primo maggiormente legato ai tempi “corti” del fine percorso e connesso all’apprendimento di vere e proprie tecniche di mediazione e il secondo, legato ai tempi lunghi del cambiamento e, in qualche modo, connesso a un vero e proprio cambio di paradigma culturale.

Nell’immediato del “fine percorso” possiamo valutare se una classe ha appreso alcune tecniche di mediazione, alcune strategie relative all’ascolto o al dialogo; possiamo valutare se è stato possibile trattare alcune criticità evidenziatesi o se il clima di conflittualità è in qualche modo diminuito. Tutto ciò non è poco ma i veri “risultati” noi crediamo siano in realtà visibili solo “nel lungo periodo” laddove cioè iniziano ad emergere, da parte di alcuni, interessi veri e propri per la mediazione, richieste di proseguimento del percorso intrapreso e quando a poco a poco si riescono a realizzare vere e proprie mediazioni tra pari. Il risultato maggiore è per noi raggiunto laddove ad un certo punto le nostre figure sono messe sullo sfondo, quando diveniamo veri e propri consulenti o supervisori, quando cioè i gruppi sanno muoversi da soli verso la mediazione; sono divenuti sufficientemente autonomi da poter tentate una mediazione tra pari. Tentare una mediazione tra pari significa infatti in primo luogo aver imparato a leggere ed affrontare le conflittualità con un’ottica diversa, aver iniziato a credere utile non eliminare le conflittualità, né fuggire di fronte ad esse, né evitarle bensì considerarle una risorsa su cui intervenire.

I progetti da noi proposti realizzano il loro “optimum” in tempi lunghi e dunque ci è parsa, qualche volta, una difficoltà il dover esaurire il percorso in pochi incontri. I tempi della relazione in genere sono tempi lunghi; le relazioni vanno coltivate e curate, non amano la fretta. Avere a disposizione sei incontri per ogni classe ci è parso “poco tempo”; il rischio è stato quello di voler affrettare “i tempi della relazione”, di “rincorrere” l’altro; di non aver sufficiente tempo né spazio per lasciar decantare i messaggi lanciati, le suggestioni proposte.

Il percorso di mediazione scolastica, così come è stato presentato, si è rivelato qualche volta “debole” nel dover affrontare situazioni di alunni che vivono circostanze di eccezionale difficoltà. Per quegli alunni, per i quali la scuola stessa prevede in genere momenti di sostegno individuale, un progetto come quello presentato può rischiare di divenire eccessivamente “invasivo”. Chi ha difficoltà relazionali o comunicative legate a storie personali particolarmente compromesse, in genere, deve essere maggiormente tutelato e abbisogna di spazi più intimi che non quelli del gruppo classe per affrontare le proprie criticità. Sarebbe un errore grossolano quello di credere che tutti siano in grado di affrontare situazioni di conflittualità all’interno di un gruppo, per qualcuno non è possibile farlo, o magari non è possibile farlo nell’immediato; occorre dunque saper distinguere e riservare a questi alunni spazi e tempi ulteriori. Per lavorare sulle relazioni occorre avere acquisito gli strumenti per farlo; per chi, nella propria storia, non ha avuto questa opportunità spesso un percorso come quello da noi proposto sollecita risonanze e vissuti intollerabili.

Riflessioni conclusive e domande aperte

Vorrei concludere questo lavoro, in cui ho cercato, e non mi è stato semplice, di sintetizzare significati, contenuti, metodi, risvolti, con una serie di domande aperte.
Le domande sono rivolte a tutti quelli che avranno avuto la pazienza di leggere quanto scritto e ipoteticamente a tutti quegli insegnanti, genitori e alunni che ogni giorno, all’interno della scuola, si incontrano o magari semplicemente si passano accanto.

  • Quanto questo progetto risulta voce fuori dal coro? Quanto è in dissonanza con altri messaggi provenienti da contesti esterni? E’ un’utopia o è invece il modo di dar voce a bisogni (emotivi) che attendono da tempo di avere voce?
  • Quanto siamo ormai imbrigliati in un sistema comunicativo e relazionale noto, per tentare un modo diverso di essere con l’altro?
  • Quanto siamo disabituati a parlare il linguaggio dell’ascolto e del dialogo? Quanto questa disabitudine ci rende difficile e pauroso il parlarne? Quanto questa disabitudine ci fa “credere” normale il dialogo apparente e l’ascolto simulato?
  • In che modo la separazione delle discipline rende incapaci di cogliere ciò che è “tessuto insieme”, cioè, secondo il significato originario del termine, il Complesso?
  • Quali timori sollecita impostare relazioni educative basate sul riconoscimento della soggettività dell’altro? Quale potere ci toglie? Quale potere ci offre?
  • Quanto ci spaventa o ci complica la vita affrontare le “questioni” attraverso un’ottica che tenga conto dell’inevitabile complessità?
  • Mi sembra chiaro come queste domande non possano avere risposte affrettate o univoche. Sono domande che, oltre a porre ad altri, pongo a me stessa per non “chiudere” una volta per tutte il progetto pensato e realizzato ma per continuare a interrogarmi su di esso e cioè sulla direzione del mio lavoro.



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Articoli:
  • Busso P. “Mediazione dei conflitti: percorsi e tecniche” in Animazione sociale n. 10 ott. 2002
  • Busso P. “La sfida ecologica del conflitto” in Maieutica n. 9-10.11 ( giugno 98-dic. 98-giugno 99)
  • Stradoni P. “Il metalogo…” in Maieutica n. 9-10.11 (giugno 98-dic. 98-giugno 99)
NOTE

  1. li definiamo “meta” in quanto si possono considerare obiettivi generali, che valgono per ogni classe ed ogni scuola; per ogni classe e in particolare per ogni incontro vengono posti altresì obiettivi maggiormente concreti e pragmatici

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