ESPERIENZE DI MEDIAZIONE SCOLASTICA

di Lilia Andreoli Centro Studi e Ricerche per la Mediazione Scolastica e Familiare ad Orientamento Sistemico Villa Cortese (MI) ligeni@libero.it info@centrostudimediazione.it

Mi piacerebbe introdurre questa relazione con l’immagine del LABIRINTO, così come viene descritta da J. Chevalier e A. Gheerbrant nel “DIZIONARIO DEI SIMBOLI”.

Il labirinto è originariamente il palazzo cretese di Minosse dove era rinchiuso il Minotauro e da dove Teseo non potè uscire altro che con l’aiuto del filo di Arianna.
Esso conta quindi come elementi essenziali la COMPLICAZIONE DELLA SUA PIANTA e LA DIFFICOLTA’ DEL PERCORSO.
“Il labirinto è essenzialmente un intersecarsi di vie delle quali certune sono senza uscita e costituiscono così dei vicoli ciechi attraverso i quali si tratta di scoprire la via che conduce al centro di questa bizzarra tela di ragno.
Il paragone con la tela di ragno non è d’altra parte esatto perché essa è simmetrica e regolare, mentre l’essenza stessa del labirinto è di circoscrivere in uno spazio più piccolo possibile il groviglio più complesso di sentieri e ritardare così l’arrivo del viaggiatore al centro che vuole raggiungere” (Briv,197).
Questo tracciato complesso si ritrova allo stato di natura nei corridoi d’accesso ad alcune grotte preistoriche; è disegnato, così assicura Virgilio, sulla porta dell’antro della Sibilla Cumana; è inciso sulle lastre delle cattedrali; è danzato in diverse regioni, dalla Grecia alla Cina; era conosciuto in Egitto.
Come mostra la sua associazione con la caverna, il labirinto deve ad un tempo permettere l’accesso al centro attraverso una sorta di viaggio iniziatico e vietarlo a quelli che non sono qualificati.
SI TRATTA DUNQUE DI UNA RAPPRESENTAZIONE DI PROVE INIZIATICHE, DISCRIMINATORIE, PRELIMINARI AL CAMMINO VERSO UN CENTRO NASCOSTO.

Il labirinto è stato utilizzato anche come sistema di difesa alle porte delle città fortificate.
Era tracciato su piante di città greche antiche.
In un caso come nell’altro si tratta di difesa della città o della casa che si considera situata al centro del mondo.
Simbolo di un sistema di difesa il labirinto annunzia la presenza di qualcosa di prezioso o di sacro. Esso può avere una funzione militare per la difesa di un territorio, un villaggio, una città, una tomba, un tesoro: non permette l’accesso se non a quelli che ne conoscono la pianta, agli iniziati.
Ha una funzione religiosa di difesa contro gli assalti del male: il male non è soltanto il demonio, ma anche l’intruso, colui che è pronto a violare i segreti, il sacro, l’intimità dei rapporti con il divino.
Il centro che il labirinto protegge, sarà riservato all’iniziato, a colui che attraverso le prove dell’iniziazione (i circuiti del labirinto) si sarà mostrato degno di accedere alla rivelazione misteriosa.
Una volta giunto al centro è come consacrato; introdotto negli arcani è legato dal segreto.

“I rituali labirintici sui quali si fonda il cerimoniale di iniziazione hanno giustamente per oggetto di insegnare al neofita nel corso stesso della sua vita di quaggiù il modo di penetrare senza disperdersi nei territori della morte …”.

Nella tradizione cabalistica ripresa dagli alchimisti, il labirinto svolgerebbe una funzione magica, e sarebbe uno dei segreti attribuiti a Salomone.
Secondo gli alchimisti sarebbe un’immagine del lavoro intero dell’Opera, con le sue difficoltà maggiori; quella della via da seguire per raggiungere il centro dove avviene il combattimento tra le due nature; quella del cammino che l’artista deve percorrere per uscirne.
Questa interpretazione si ricollegherebbe a quella delle dottrine ascetico-mistiche: concentrarsi su se stessi, attraverso i mille cammini delle sensazioni, delle emozioni, delle idee, sopprimendo ogni impedimento all’intuizione pura e ritornare alla luce senza smarrirsi nei giri del labirinto.

Ma quale via individuare?
Attraverso quale filo possiamo trovare la strada per entrare e uscire dal labirinto?

Ancora dal DIZIONARIO DEI SIMBOLI sappiamo che il simbolismo del filo è essenzialmente quello del mezzo che “collega tutti gli stati dell’esistenza, fra loro e al loro Principio (Guénon).

Cercheremo allora di provare a ricercare il filo e di lasciarci guidare da esso alla scoperta della Via.

Ci addentriamo in questa ricerca attraverso il racconto di un’esperienza di mediazione scolastica che ci ha visto protagonisti, insieme a un ragazzo, alla sua famiglia, a un dirigente scolastico, a un gruppo di insegnanti, a uno psicoterapeuta, a una rete di servizi, nello scorso anno scolastico.

Il progetto di mediazione scolastica prende avvio con l’inizio dell’anno scolastico 2002/2003, quando i servizi sociali del comune di Ceriano Laghetto affidano ad un istituto privato, convenzionato per alcuni servizi con l’ASL territorialmente competenti, il caso del minore R.S., iscritto al secondo anno della scuola media statale dell’Istituto Comprensivo di Ceriano L., per lo svolgimento di una psicoterapia individuale e di colloqui di sostegno al padre.
Il minore R.S., originario del Marocco, viene adottato all’età di quattro anni dalla famiglia S., residente nel comune citato, sito nell’hinterland milanese, al confine tra la provincia di Milano e la provincia di Varese.
Il ragazzino subisce, subito dopo l’adozione un delicato intervento chirurgico comportante l’asportazione di un rene.
La madre adottiva si suicida dopo qualche mese dall’ingresso di R. in famiglia: è R. stesso a scoprire il corpo senza vita della madre nel bagno di casa.
R. rimane solo con il padre e con la nonna paterna.
Nella casa in cui abitano, al piano superiore risiede un fratello del padre con la moglie.
Il ragazzino frequenta la scuola elementare nel comune di residenza, apparentemente senza grosse difficoltà, supportato da una richiesta di “sostegno”.
L’ingresso nella scuola media fa emergere invece una serie di criticità tali da mettere in discussione addirittura la permanenza di R. nell’istituzione scolastica: i problemi che R. presenta investono tutte le componenti scolastiche e non: insegnanti, compagni, genitori, servizi sociali, ….
Contemporaneamente R. viene preso in carico, sempre su segnalazione dell’Amministrazione Comunale dall’Istituto privato, citato in premessa, per quanto concerne il servizio di Neuropsichiatria Infantile.
La neuropsichiatra che segue il ragazzo scompare per una grave malattia, dopo circa un anno dalla presa in carico.
La scuola si attiva per introdurre la figura di uno psicologo che faccia da supporto al ragazzo con colloqui periodici che si svolgono durante le ore di lezione all’interno dell’edificio scolastico.
Con l’ausilio di questa figura il Consiglio di Classe formula un “accordo formativo” con il sig. S., genitore dell’alunno R.S.
Fino a qui dal punto di vista organizzativo e di attivazione dell’istituzione scolastica tutto sembra filare liscio, ma una serie di avvenimenti susseguenti alla stesura di questo accordo fanno intravedere un altissimo potenziale di conflitto.Alcuni di essi sono già facilmente individuabili nel testo dell’accordo stesso.
Soffermiamoci un attimo su questo aspetto.
E’ fondamentale, come primo spunto di riflessione, capire cosa porta il mediatore, il conduttore a fare un’affermazione di questo tipo.
Ci fornisce una bella metafora Keeney: “Spesso i terapeuti assomigliano a uno chef i cui interessi vadano più ai libri di ricette che alle teorie della scienza dell’alimentazione.
Ma benchè lo chef possa sostenere che le teorie formali della scienza dell’alimentazione non sono rilevanti per la sua cucina, la sua scelta delle ricette e il suo modo di cucinare rispecchiano particolari presupposti alimentari come pure determinate regole sulla preparazione dei cibi”.

Così il mediatore, il clinico, l’insegnante che non riesce a riconoscere esplicitamente i presupposti che stanno alla base del proprio lavoro può essere meno efficace, proprio per questa deficienza di comprensione.
Ma altrettanto poco efficace se spulciando una mappa teorica, concentra l’attenzione solo sulla sua applicabilità, ignorandone il valore insito nella stessa.
Bateson mette in guardia rispetto a questo tipo di utilizzazione:
“La teoria sta diventando disponibile a quanti sono orientati verso l’azione … Portala in corsia e provala. Non buttare via anni per cercare di capire la teoria, ma limitati a utilizzare gli spunti che ne puoi cavare…. E’probabile che costoro abbiano delle frustrazioni e che i loro pazienti ne siano danneggiati … La teoria non è un semplice aggeggio in più che possa essere usato senza comprensione …”

Idealmente occorre superare la dicotomia tradizionale tra teoria e pratica e cimentarsi invece con entrambi.
Per superare questi opposti apparenti occorre fare ricorso all’EPISTEMOLOGIA.
Seguendo Bateson, il termine EPISTEMOLOGIA viene usato per indicare i presupposti basilari che sottendono l’azione e la cognizione, è la nostra modalità di esperire il mondo.

L’ATTO EPISTEMOLOGICO FONDAMENTALE E’ LA CREAZIONE DI UNA DIFFERENZA.
Solo distinguendo una forma dall’altra siamo in grado di conoscere il nostro mondo:
- la distinzione tra terapeuta e cliente, tra intervento e sintomo, tra soluzione e problema.
Keeney ci viene in aiuto con un esempio.
Immaginiamo un uomo che colpisca con la mazza una palla da baseball.
L’interpretazione convenzionale di questo scenario vede un essere vivente distinto, chiamato “uomo”, in atto di usare un oggetto fisico nettamente delimitato, chiamato “mazza”, per colpire un altro pezzo di materia distinto chiamato “palla”.
Se noi consideriamo questo scenario, uomo-mazza-palla come un prodotto delle nostre distinzioni, siamo liberi di ordinare la sequenza di eventi nel modo che vogliamo.
Un mondo può essere percepito in infiniti modi secondo le distinzioni che stabiliamo.
Il porre in circolo l’uomo, la mazza, la palla rivela un diverso modello di organizzazione.
In questa prospettiva, vedere la palla far sì che la mazza provochi il movimento del braccio dell’uomo è altrettanto logico che il tipico modo occidentale di stabilire una sequenza in cui un uomo colpisce una palla con una mazza.
Ma entrambi i punti di vista sono incompleti. Occorre allora puntare l’attenzione sull’organizzazione circolare o ricorsiva di questi eventi anziché su una qualsivoglia particolare sequenza lineale.
Nel modo di vedere tradizionale il terapeuta cura il cliente mediante un dato intervento.
Separiamo quello che facciamo nel mondo da quello che crediamo di essere veramente dentro di noi e in questo modo dimentichiamo che l’immagine apparentemente superficiale della persona è la faccia esteriore di quel sé che effettivamente e veramente siamo.
Un facile adattamento alle regole può sembrare il percorso più fluido, più agevole per il sistema nel suo insieme.
Credere però che il sistema funzioni al meglio quanto più scorre liscio è un modello semplicistico, come il modello infantile che riconosce il genitore ideale in quello che non crea difficoltà.
Potrebbe essere utile per il terapeuta immaginare il comportamento del cliente come un intervento.

Andiamo un po’ avanti …

Dopo la conclusione dell’anno scolastico, i Servizi sociali del Comune intervengono anche finanziariamente sul progetto di integrazione del minore R.S., attraverso l’utilizzo dei fondi per il Diritto allo Studio.
Poiché la scuola nell’anno precedente aveva richiesto il rimborso delle spese per il consulente interno direttamente all’Amministrazione Comunale, per l’anno scolastico successivo l’Amministrazione Comunale ritiene di poter dare indicazioni sugli operatori che seguiranno il ragazzo, individuandoli presso il Centro Privato, citato in premessa, convenzionato con l’ASL.
Invita a tal fine il Dirigente Scolastico, lo Psicoterapeuta del Centro cui il ragazzo è affidato per la psicoterapia, il Centro Psico-pedagogico di C.L. ad un incontro finalizzato alla stesura di un progetto comune per supportare il ragazzo e la famiglia.
A seguito delle indicazioni emerse nell’incontro il Comune richiede tempestivamente al Centro P.M. di Saronno di stendere una progettazione “finalizzata alla presa in carico complessiva della situazione di R.S.”.
A seguito di tale comunicazione il Centro P.M. interpella il nostro Centro Studi per un intervento con il Consiglio di Classe della classe in cui R. è inserito, che proceda parallelamente alla presa in carico di R. e del padre da parte del Centro P.M. – Servizio di Psicoterapia. (Schema 3)

Immediatamente l’Istituzione scolastica, nella figura della dirigente, inizia una serie di squalifiche importanti. (Schema 4)
Ci soffermiamo ancora un po’.
Cosa è successo ?
Quali elementi possiamo trarre da questa SERIE DI EVENTI per il nostro progetto di lavoro ?
Partiamo da alcune premesse epistemologiche fondamentali:

QUANTO PERCEPIAMO E CONOSCIAMO E’ IN LARGA MISURA DOVUTO ALLE DISTINZIONI CHE FACCIAMO

OGNI DISTINZIONE E’ FATTA DA UN OSSERVATORE

CIO’ CHE L’OSSERVATORE OSSERVA PUO’ ESSERE DESCRITTO

QUANDO DUE INDIVIDUI INTERAGISCONO CIASCUNO DI ESSI PUNTEGGIA IL FLUSSO DELL’INTERAZIONE

Occorre allora osservare che se si sezionano le descrizioni presenti in una relazione e si considera ciascuna parte solo come qualcosa situato all’interno della persona si incorre in ciò che Bateson chiama “principio dormitivo”, ossia una rimanipolazione più astratta di ciò che si ha la pretesa di spiegare.
Se un osservatore, invece, combina i punti di vista di entrambi, comincia a emergere il senso dell’intero sistema.
La punteggiatura originata da ciascuna persona può essere presentata in forma di sequenza, quasi come scattare una serie di istantanee di ciascuno dei due individui attraverso il tempo e ad accostare poi le immagini l’una a fianco dell’altra.
Quando l’osservatore presenta in forma di sequenza queste diverse punteggiature, può poi cercare di discernere la struttura che le connette.
Per l’osservatore ciò significa che la combinazione simultanea delle punteggiature fornisce una visione della relazione nel suo insieme.
Bateson cita a proposito: “E’ corretto cominciare a pensare le due parti dell’interazione come due occhi, che separatamente forniscono una visione monoculare di ciò che accade e, insieme, una visione binoculare in profondità. Questa visione “doppia” è la relazione”.
Bateson proseguì a denominare due categorie di processi di interazione: la relazione complementare e la relazione simmetrica.
Il termine “simmetrico” si riferisce a tutte quelle forme di interazione che possono essere descritte in termini di competizione, rivalità, emulazione reciproca.
Il termine “complementare” è applicato a tutte quelle sequenze interattive in cui le azioni di due individui in relazione sono diverse ma si combinano l’una all’altra (es. autorità-sottomissione, dipendenza – assistenza, ecc.).
E’ importante altresì osservare che la visione binoculare di una relazione richiede un vocabolario appropriato.
Ad es. nell’ottica della relazione non si parla di una serie di episodi in cui marito e moglie brontolano e si chiudono in se stessi, e nella scuola insegnante e alunno squalificano e si sentono umiliati: ciò costituirebbe una descrizione comportamentale dell’intero sistema.
Ci si riferisce invece ad una “relazione complementare”.
Per acquisire questa visione di ordine più elevato, o immagine binoculare, occorre saltare un ordine di astrazione, dal comportamento al contesto, con un salto concomitante all’espressione descrittiva, da descrizione dell’azione a descrizione dell’interazione.
I procedimenti di indagine, secondo Bateson, erano scanditi da un’alternanza tra la classificazione della “forma” e la descrizione dei “processi”, ben rappresentati dalla “scala a zigzag”. (Schema 5)
Abbiamo effettuato dal punto di vista teorico un altro passaggio importante: abbiamo inserito l’osservatore (noi) nel sistema che stiamo esaminando.
Il salto “dalle scatole nere” alle “scatole nere più l’osservatore” rappresenta un’evoluzione della cibernetica rudimentale a quella che è stata chiamata “cibernetica della cibernetica”.
Per fare un es. preso in prestito dalla terapia della famiglia:
- la prospettiva che punteggia la famiglia come una scatola nera definisce tanto i sintomi quanto gli interventi del terapeuta come “input” alla scatola.
I terapeuti presentano un’analogia con i tecnici di controllo e si preoccupano di “adattare”, “ricalibrare”, o “cambiare” l’organizzazione strutturale delle famiglie, attraverso un programma esplicito, finalizzato.
Questa visione presenta una limitazione: essa trascura di considerare l’osservatore o il terapeuta come parte integrante del sistema che è stato osservato o sottoposto a trattamento. (Schema 8)

La cibernetica della cibernetica tenta di porsi in una prospettiva in cui sia possibile aprire le due scatole nere separate e vederle come un intero sistema ricorsivo.

Osserviamo un’altra sequenza del percorso.

L’intervento di mediazione viene preceduto da due incontri di consultazione dove in particolare si evidenziano:
- inadempienza dell’istituzione scolastica nella stesura del Profilo Dinamico Funzionale e del Piano Educativo individualizzato
- atteggiamento di squalifica da parte del Dirigente Scolastico nei confronti degli esterni (Centro, Amministrazione Comunale, padre …) e degli interni (docenti)
Questi elementi impediscono un confronto diretto all’interno dello stesso Consiglio di Classe e provocano degli schieramenti molto ben celati.
Ogni incontro diventa una sorta di campo di battaglia dove si mettono in evidenza le incapacità delle persone nello svolgimento della propria professione, l’inadeguatezza del padre, la pericolosità e l’inadeguatezza del ragazzo.
E’ fin da subito evidente che in questa aggressività latente nel gruppo c’è una sorta di dichiarazione di impotenza, ben nascosta dal tentativo di affermare il proprio potere (di dirigente, di insegnante…): un potere che invade inconsapevolmente il delicatissimo ambito emotivo contribuendo all’evolversi della precarietà e dell’insicurezza che pervade nei soggetti in gioco.
Se una relazione costruita sul rapporto di potere determina insicurezza, il passaggio ad una condizione di insicurezza, è consentito solo modificando l’ottica.
Le insicurezze delle persone sono legate alla mancanza di rapporti di fiducia interpersonale ed istituzionale, a condizioni di vulnerabilità soggettiva, alla sensazione che le istituzioni non si occupino delle persone e dei loro problemi.
La mediazione diventa in questo senso un processo di costruzione di fiducia, di incontro con la sofferenza delle parti in gioco, diventa progetto di ricostruzione delle condizioni di fiducia minima, affinchè le regole di convivenza abbiano la possibilità di manifestare la loro funzione organizzativa e non soltanto la loro funzione restrittiva della libertà dei singoli.
La mediazione si fa strumento di educazione alla gestione non violenta dei conflitti attraverso l’appropriazione di uno stile di comportamento basato sulla consapevolezza che in qualsiasi relazione conflittuale esistono modalità di gestione non distruttive e basate sul dialogo.
Diventa allora indispensabile un intervento che comprenda più livelli:
- contatto personale con la D.S.: a Lei viene chiesta l’autorizzazione, in quanto capo di istituto, a procedere nell’intervento, esplicitando chiaramente obiettivi e metodi.
Questo passo consente di ridefenire i ruoli in gioco (a ciascuno il suo..).
Si sottolinea la necessità di richiedere il rispetto di alcune formalità alle amministrazioni che interagiscono con la scuola e nel contempo si evidenzia l’opportunità che la scuola, dal punto di vista legale, formalizzi il proprio intervento sul minore, attraverso la definizione degli aspetti previsti dalla normativa (P.d.F. – P.E.I.).
- esplicitazione degli obiettivi e della metodologia al Consiglio di Classe ed acquisizione delle opinioni dei singoli insegnanti.
Questo passo consentirà di poter intraprendere un percorso basato sulla condivisione dei partecipanti e non sulla semplice interpretazione degli avvenimenti.

Che cosa abbiamo fatto?
Abbiamo individuato una procedura che definiremo l’ETICA DELL’OSSERVARE.

In primo luogo è risultato di fondamentale importanza riconoscere il NESSO TRA L’OSSERVATORE E L’OSSERVATO.
Questo tipo di osservazione ci consente di vedere quanto e come l’OSSERVATORE partecipa a ciò che osserva.
Anche la visione che il terapeuta ha di un sintomo presuppone una particolare preferenza, intenzione o base etica.
Quest’ottica induce a pensare che ogni descrizione dica altrettanto o di più sull’osservatore di quanto dica sull’oggetto della descrizione stessa.
Parafrasando Bateson, “quando l’investigatore si mette a sondare zone ignote dell’universo, l’estremità opposta della sonda scava sempre nelle sue stesse parti vitali”.
Un cambiamento di prospettiva in tal senso implica un PASSAGGIO DA UN MODO DI PENSARE CAUSALE E UNIDIREZIONALE A UN MODO DI PENSARE SISTEMICO E MUTUALISTICO, DALLA PREOCCUPAZIONE PER LE PROPRIETA’ DI CIO’ CHE SI OSSERVA ALLO STUDIO DELLE PROPRIETA’ DELL’OSSERVATORE.
Un cambiamento paradigmatico di questo tipo sostituisce alla nostra preoccupazione per l’oggettività, la preoccupazione per la responsabilità.
Non dimentichiamo poi che ogni sistema autopoietico è un componente di un altro sistema autopoietico, pertanto l’individuo che tenti di dar nuova forma alla propria vita all’interno di un sistema autopoietico, non può essere completamente il suo nuovo sé, perché il sistema di appartenenza, sia esso la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, continua a sostenere che di fatto egli è simile al suo vecchio sé.
La nozione di sistemi inscatolati come scatole cinesi significa che l’individuo fa parte di più ordini di organizzazione.
Ci mettiamo nei guai se dimentichiamo che interventi, sintomi, terapeuti, famiglie, gruppi sono approssimazioni o metafore in luogo di strutture più ampie e che se distinguo tra un sistema e me stesso, sono io a costruire lo schema di riferimento.
L’epistemologia cibernetica comincia con il disegnare uno schema o modello di ricursione che attraversa entrambi i lati di queste distinzioni.
Anziché vedere terapeuta e cliente, mediatore e sistema in mediazione come agenti separati che agiscono l’uno sull’altro, essa va in cerca di schemi o modelli che connettono entrambi i componenti attraverso una struttura di retroazione.

Anche linguisticamente sembra più frequente l’utilizzo di termini che indicano parti isolate anziché processi ricorsivi: sistema, sintomo, paziente designato, terapeuta, intervento.
Attraverso la cibernetica si assiste ad una riformulazione dei termini non come riferimenti alle cose, ma al modello.
Alcuni studiosi della terapia della famiglia hanno distinto certe parti del processo famigliare che sono chiamate “comunicazione”, “conflitto”, “problem solving”, “percezione”, “omeostasi”.
Se tracciamo confini rigidi per indicare tali distinzioni, dimentichiamo facilmente che esse sono sostanzialmente indicazioni abbreviate di processi cibernetici di portata assai più ampia.
Questo modo di pensare porta il clinico, il terapeuta, il mediatore a ritenere che occorra rivolgersi a queste parti separatamente per poter alterare il sintomo, e quindi lo induce indirettamente a separare lui stesso da ciò che egli cerca di curare.

Dalla nostra esperienza citiamo alcune espressioni usate nelle verbalizzazioni dei docenti del Consiglio di Classe, durante la narrazione delle proprie esperienze:

- noi siamo OSTAGGIO di questa relazione
- tutta la scuola è attenta su di lui
- mi sembra che non ci siamo mai SPOSTATI
- dove VOGLIAMO andare …

L’ETICA DELL’OSSERVARE

IO OGGETTO
IO OSSERVO ME STESSO MENTRE INCONTRO
L’ALTRO
IO OSSERVO LA RELAZIONE

Partiamo dal principio che:
- i nomi sono termini in codice per indicare la relazione e il processo ricorsivo
- non è possibile non fare distinzioni quando descrivi il mondo come separato da colui che lo esamina, lo punteggia, usi un linguaggio dualistico
Ne deriva che, quando ci imbattiamo in una notevole complessità, come l’organizzazione dell’interazione umana, la nostra incapacità di discernere modelli di ordine più elevato ci spinge a commettere quello che Whitehead ha definito “lo sbaglio di una concretezza mal posta”.

Per l’applicazione di questa parte della teoria, nel nostro lavoro abbiamo costruito e utilizzato una GRIGLIA DI OSSERVAZIONE che consentisse di cominciare a prendere confidenza con il mondo dei signicati, propri e degli altri.
Nella scheda si identificano cinque punti fondamentali:
- il gruppo classe viene osservato come gruppo di lavoro
- si delinea un’analisi della struttura organizzativa: quali scopi, soggetti, ruoli e funzioni, quali azioni, vincoli e risorse si osservano ?
- successivamente all’analisi della struttura organizzativa si delinea l’analisi della struttura subistituzionale: gerarchia, rapporti di predominio/subordinazione, relazioni interpersonali, regole, ridondanze, punteggiature possibili, modalità con cui le punteggiature si esprimono, clima emotivo.
- Si specificano in particolare le definizioni di termini quali: rifiuto, conferma, disconferma e si invita a fare particolare attenzione alla ridondanza con cui le dinamiche relazionali si presentano.
- Una sezione della scheda è dedicata all’osservazione dell’individuo come sistema: variabili, connessioni tra le variabili dell’individuo ed il resto del sistema, modalità di intervento.
- L’ultima sezione della scheda è dedicata all’osservazione/attenzione ai piani di attribuzione dei processi di senso.

Possiamo però usare una dialettica che renda continuamente manifesti entrambi i lati delle nostre distinzioni: il tuo incontro con il mondo, l’incontro con le parti del tuo sé.
Le persone in interazione muovono insieme in una specie di danza, ma non sono consapevoli del loro movimento sincrono e lo fanno senza musica e senza un’orchestrazione conscia.
Come un direttore d’orchestra alle prese con una sinfonia, possiamo essere sensibili a ogni singolo strumento, ai vari modi di collegare i diversi strumenti in differenti forme di armonia e cacofonia, e alla musica che nasce da tutto l’insieme.

Diventa a questo punto privilegiato l’utilizzo della NARRAZIONE, come tentativo di ricostruire, riportare a galla una storia, ma questa volta cercando di connetterne i significati.
Le storie ci danno modo di costruire delle descrizioni e ci mettono in grado di discernere configurazioni d’ordine più elevato.
Trasferendo le nostre storie da una situazione all’altra, creiamo contesti che danno significato e struttura a quanto facciamo.
Le storie sono rivelatrici del modo in cui le persone punteggiano il loro mondo e forniscono quindi una traccia per la scoperta delle loro premesse epistemologiche.
Si introduce l’elemento “contesto”: quando ricordo, quando racconto, devo avere la consapevolezza del contesto di cui mi sto occupando (la mia famiglia d’origine, la mia persona, la mia classe,….).
Si introduce con molta lentezza l’elemento “tempo”: ognuno ha bisogno di tempi soggettivi per ricordare, per narrare, per connettere.
Il recupero di questi passaggi viene a far parte di un percorso di differenziazione: ad ogni piccolo passo sulla via della differenziazione si oppongono forze emotive tendenti alla coesione che controllano il sistema emotivo.
La coesione è sottolineata dall’uso ricorsivo del “noi” per definire “cosa pensiamo o sentiamo” o dalla definizione del sé di qualcun altro “suo padre pensa che…”, la preside pensa che …”, o ancora dall’uso di espressioni impersonali per definire valori comuni “ è sbagliato”, “è questo che va fatto”.
Il principio fondamentale del percorso di differenziazione è quello di ridare una posizione di rilievo all’Io.
La posizione “Io” definisce il principio e l’azione in termini di “Questo è ciò che io penso e credo” e “Questo è quello che farò o non farò”, senza attribuire le proprie valutazioni e credenze agli altri.
E’ l’Io responsabile che si assume la responsabilità della propria felicità e del proprio benessere e che non tende a ritenere gli altri responsabili o colpevoli della propria infelicità e dei propri insuccessi.
L’andamento della differenziazione non è così progressivo e senza ostacoli.
La differenziazione non può avvenire nel vuoto, ma solo in relazione agli altri, su argomenti importanti per tutte le parti in causa.
La differenziazione deve anche avvenire nel contesto di una relazione significativa nella quale l’altro deve rispettare le convinzioni e le azioni che le affermano.

Poter utilizzare questa modalità di lettura consente di cogliere l’enorme dignità e la ricchezza in termini energetici di coloro che attuano questo percorso (il ragazzo, ma anche i suoi insegnanti).
Recuperare modalità disapprese, apprenderne di nuove e trasferire gli apprendimenti acquisiti in contesti via via più allargati è un obiettivo importante che si pone con R., ma anche con il Consiglio di Classe.
La negoziazione della soddisfazione immediata di un bisogno (fuga, possesso, affetto …) è determinante per la definizione del rapporto tra il ragazzo e gli adulti di riferimento, ma consente altresì all’adulto di negoziare la soddisfazione dei propri bisogni (controllo, determinazione, riconoscimento …).
E’ così che la relazione non è più fondata sull’accusa dell’altro, identificato come colpevole del mio malessere, ma sul riconoscimento delle mie criticità: l’altro non è qualcuno da combattere o da eliminare ma diventa risorsa per la mia crescita umana e professionale.
C’è comprensione umana quando sentiamo e concepiamo gli umani come soggetti; essa ci rende aperti alle loro sofferenze e alle loro gioie; ci permette di riconoscere negli altri gli stessi meccanismi egocentrici di giustificazione che sono in noi.

E a questo punto la mediazione si trasforma, trasforma il suo significato: da mediazione riparativa in cui l’obiettivo è quello di ricostruire le condizioni di comunicazione tra i membri di una relazione a mediazione per la cooperazione.
La diversità può ora essere accolta come opportunità: si procede attraverso un tentativo di ristrutturazione delle differenze in risorse.
Si procede verso la ricerca di una cornice comune, attraverso l’esplicitazione di ciò che è irrinunciabile e fondante dal punto di vista identitario per le parti.

Elemento di fondamentale importanza, dopo che il Consiglio di Classe è riuscito a viversi nei termini sopra citati, la ricostruzione della comunicazione con il padre.
Il percorso fatto fino a quel momento con gli insegnanti ha consentito di trasformare la “scheda di valutazione” da strumento di giudizio a strumento di mediazione, per agganciare il padre, per costruire con lui un canale comunicativo, per valorizzare la sua figura, domandando confronti e pareri, che sfocerà nella definizione del Profilo Dinamico Funzionale, non come atto burocratico fine a se stesso, ma come punto di partenza condiviso: difficoltà e risorse come spunti per un cambiamento, non come atto accusatorio sulle reciproche incapacità

Questo discorso è fatto da adulti e rivolto ad adulti.
Ma diventa estremamente importante cominciare ad educare alla cultura della mediazione attraverso un percorso di “mediazione tra pari”, meglio declinato nelle relazioni che seguiranno nelle quali di volta in volta ritroveremo i concetti fin qui esposti.
Consigliamo di prestare particolare attenzione all’epistemologia del mediatore, al tipo di osservazione fatto, al metodo usato e a quale teoria si riferisce, nonché alle modifiche e ai cambiamenti che questi aspetti hanno provocato nei partecipanti.
Estremamente importante sarà poi riflettere insieme sull’ultima relazione.
Fino a dove la mediazione è possibile?
Quali sono i presupposti perché di mediazione si possa parlare?
E’ possibile riaggiustare il percorso in itinere?

Nessun commento: