MEDIAZIONE GIURIDICA: UN PROBLEMA DI DEFINIZIONE DEL CAMPO DI COMPETENZA

di Luca Pappalardo Psicologo, Psicoterapeuta Istituto di Terapia Familiare di Firenze Didatta AIMS pappalardo.francini@libero.it

Scomponiamo il termine mediazione giuridica nei due termini che la compongono. Un primo rilievo riguarda la definizione di mediazione. Al di là delle definizioni descrittive conosciute delle varie organizzazioni (A.P.M.F., S.I.M.E.F., A.I.M.S., “Chartre”, etc.), in cui si procede o per descrizione dell’operatività o per esclusione di ciò che non è, non ve n’è una che coglie la sua natura. In altri termini, qul è la classe a cui appartiene la mediazione? E’ un atto sanitario, un atto psicopedagogico, un atto giuridico? La questione della definizione che attraversa la letteratura sulla mediazione attiene alla difficile collocazione epistemologica della mediazione? O non sembra piuttosto un problema di definizione che occhieggia al mercato?

Rispetto alla natura dell’atto – dicevo – la letteratura ci dice che la mediazione non è
terapia, non è una consulenza, non è un consiglio legale.
A mio avviso si può affermare che essa sia abbia le caratteristiche di un atto sanitario,
almeno nell’accezione che questo termine ha nelle leggi del nostro paese. “Per “atto
sanitario” si intende infatti ogni attività posta in essere dall’operatore a ciò abilitato in funzione del miglioramento delle condizioni di salute1 del paziente o di altri.”Dunque non solo si comprende l’attività propriamente terapeutica rivolta alle condizioni di peggioramento del benessere psicofisico della persona, ma anche quella consultiva, preparatoria, preventiva, solidaristica, che è finalizzata sempre al miglioramento delle condizioni di benessere psicofisico della persona o alla prevenzione di un peggioramento e/o di una vera e propria patologia, con ingerenza da parte dell’operatore nella sfera dei diritti di natura personalissima come il diritto alla salute,dignità, autodeterminazione, riservatezza (…)2.
Sulla base di queste premesse non voglio stabilire un sillogismo errato per cui tutti i
conflitti siano patologia. Ma affermare piuttosto che essi siano un sintomo di un disagio psicologico o psicofisico comunque peggiorativo della condizione di benessere, così come viene definita dall’O.M.S.
Perciò, quando l’arte del negoziato si applica a questioni riguardanti la vita e la salute e quando queste risultino alterate in senso peggiorativo dal conflitto, credo che si possa concludere che la mediazione, per gli effetti positivi che cerca di creare sulla vita stessa delle persone cui si rivolge possa essere considerato dal punto di vista giuridico un atto sanitario.
Il mediatore infatti inquadra il conflitto, fa una diagnosi di esso e dei disagi sofferti dalle parti ed opera affinché queste possano evolvere verso un ragionevole accordo che consenta di migliorare la condizione psicofisica a venire, nella gestione della mutata condizione esistenziale e a prevenire, se non sono già in atto, o a migliorare, i danni per se stessi ed i minori eventualmente coinvolti nel conflitto.
Ancora circa il poliedrico contorno del termine mediazione.
Ho scritto altrove3 che quando si tratta di mediazione si può fare riferimento – in modo evidente o implicito – alla mediazione come intervento propriamente detto ma, nel linguaggio corrente, anche al corpus di tecniche adottate e, in senso lato, all’attitudine e alla competenza dell’operatore psicosociale a rintracciare soluzioni di compromesso rispetto al conflitto.

Vediamo quest’ultimo aspetto. Nel lavoro terapeutico e in più generale in quello clinico l’operatore ricorre spesso ad una funzione che è quella di mediare. Fa mediazione, per esempio, tra piano di realtà ed il piano dei sentimenti o degli istinti, fa mediazione tra le rappresentazioni familiari rigide dei propri clienti e quelle più funzionali a cogliere il significato di un determinato sintomo o comportamento, fa mediazione tra diverse opzioni nelle scelte educative dei genitori. Nel fare questo utilizza appunto una propria competenza, che in quella fase del lavoro sembra più opportuna rispetto ad altre possibilità di intervento, quali provocare oppure ridefinire. Passiamo al corpus di tecniche.
Durante il percorso formativo vengono insegnati agli allievi strumenti operativi quali il controllo del processo, le modalità per la gestione del conflitto o le tecniche di negoziazione.

Da queste prime considerazioni critiche si evince una notevole plasticità ma anche una qualche indeterminazione del termine mediazione e di ciò che con essa definiamo. Lasciamo in sospeso la questione e veniamo al secondo termine:”giuridica”.
Dal punto di vista linguistico la definizione di giuridico significa: “pertinente o riconducibile al Diritto oppure fondato, riconosciuto o tutelato nell’ambito del Diritto”.4
Il Diritto definisce le norme di ciò che è lecito ed illecito nella condotta umana in ambito amministrativo, civile, penale.La Legge prevede l’opera, l’ausilio, la consulenza – l’intervento, insomma, nella cornice del procedimento civile e penale – di consulenti o periti che affianchino la funzione giudicante del magistrato. In generale, quando mancano leggi di copertura universale (leggi di sussunzione), il magistrato si avvale dell’esperto per passare dalla possibilità alla probabilità/certezza nei propri atti.

La Legge italiana che allo stato attuale non prevede un definito istituto ci permette di trovare riferimenti all’attività di mediazione giuridica?
In Italia il concetto di mediazione giuridica, con riferimento al contesto familiare, ha un
addentellato nell’articolo 155 c.c., quando riferendosi ad una generica azione di risoluzione delle controversie, recita “nell’emanare i provvedimenti relativi all’affidamento dei figli e al contributo al loro mantenimento, il giudice deve tenere conto dell’accordo fra le parti”.
Più definito nelle sue funzioni – ma non esplicito nell’inquadramento – è l’aggancio che offre all’introduzione della mediazione il codice di procedura penale italiano ma solo per la giustizia minorile.
In definitiva gli agganci sopra menzionati sono talmente indiretti che il risultato di fondo è un vuoto legislativo in materia di mediazione giuridica. Di conseguenza anche l’opera del mediatore è verosimilmente regolata solo in riferimento al più vasto ambito delle professioni intellettuali.
Si fa riferimento dunque all’art.2220 c.c.”esercizio delle professioni intellettuali”, in modo indiretto ed analogico (iscrizione al proprio eventuale ordine di appartenenza), non avendo validità giuridica diretta, ai fini del 2229, per la mancanza di un riconoscimento della professionalità autonoma del mediatore o riconducibile ad altre professioni già legiferate.
Direttamente l’attività del mediatore è regolata dall’art. 2232 c.c., come qualsiasi prestatore d’opera intellettuale, per “l’esecuzione dell’opera” stessa. L’obbligazione di una determinata prestazione da parte dell’operatore (sanitario, legale, psicopedagogico..) può derivare da un contratto d’opera intellettuale, come già citato dagli art. 2229 e 2232, oppure può avere origine non contrattuale, quando l’incarico è conferito dalla pubblica amministrazione, dall’ Autorità Giudiziaria, in vista del perseguimento di un pubblico interesse.

Come si può dunque parlare di mediazione giuridica quando la legge non la prevede esplicitamente nei suoi articolati e quando la mediazione non attiene alla distinzione e al giudizio di ciò che è lecito da ciò che è illecito?
Vi è quindi una sorta di contraddizione terminologica. D’altra parte non è questo il solo nodo che si incontra nel complesso rapporto tra Diritto e discipline di carattere
psicosociale.
Altre questioni di vario genere si aprono quando si accostano due termini come “mediazione” e “giuridica”.
Una delle principali è quella che rimanda all’epistemologia del Diritto e a quella delle
Discipline psicosociali. Su questa Gaetano De Leo ha scritto cose importanti.5
Vediamole.
Se entrambe appartengono alla grande famiglia delle scienze umane, questa ha però due grandi e diverse categorie che le classificano: quelle a valenza descrittivo-esplicativa e quella a valenza prescrittiva. Il diritto, come è noto, è una disciplina a carattere prescrittivo, che stabilisce obblighi incondizionati.
La psicologia invece non è una scienza monolitica ma un insieme di discipline distinte, può perseguire finalità operative (psicologia applicata). Essa ha un duplice statuto sul piano epistemologico: sul versante descrittivo-esplicativo, sia a livello nomotetico – le leggi generali che spiegano i fenomeni psichici – sia a livello idiografico – eventi/situazioni con carattere di singolarità – la psicologia rientra nelle scienze teoriche. Nel suo versante applicativo rientra invece nelle scienze pratiche.
Quindi, in sintesi, dal punto di vista epistemologico il diritto e gli interventi psicosociali come la mediazione hanno un’affinità d’oggetto – la condotta umana – ma una diversità di finalità e metodi, anche quando si considerano gli aspetti applicativi. Si può infatti sommariamente operare una dicotomia tra gli obblighi condizionati delle discipline psicosociali, con un’elevata flessibilità e una continua revisione delle condizioni di esercizio, un numero infinito con consequenziale impossibilità di prevederle tutte e gli obblighi incondizionati del diritto. L’ideale del diritto è infatti la decidibilità; la capacità di sussumere ogni caso di specie in una norma che lo contempli (numero finito delle condizioni di esercizio della condotta umana).

Un altro nodo contraddittorio che si forma dall’accostamento dei termini mediazione giuridica è connesso alle diverse caratteristiche delle utenze che si rivolgono alla Giustizia e alla mediazione. Diversa è inoltre l’etica che sottende le diverse domande e le logiche sottostanti.
Già alla fine degli anni 80, Cigoli e collaboratori6 individuavano nel ricorso all’azione giuridica nelle situazioni di separazione coniugale e divorzio ad alta conflittualità una sorta di richiesta inconsapevole, un transfert sul sistema giustizia di componenti conflittuali con conseguente estroflessione sul sistema sociale di tensioni familiari. Tale operazione appare di conseguenza una risultante di una carenza di risorse interna al sistema familiare.
Si attiva in tali casi a vari livelli di intensità una consequenziale funzione di tutela nell’implicità presa in carico delle situazione dove è a rischio il legame tra le generazioni e attraverso questo ai legami di solidarietà e sussidiarietà tra le parti del sistema sociale.

Se questa è l’azione che muove la dinamica processuale quali sono le leve motivazionali su cui operare? Quali aspetti dell’agire e del sentire umano vengono o devono essere sollecitati da questa presa in carico?
Cigoli ricorda che, occupandosi di famigliare, non può che esserci un richiamo costante al principio etico (Ethos) che lo fonda e lo attraversa. Se il tema è la differenza generazionale non si può infatti parlare solo in termini di affetti, perché viene chiamato in causa un principio di responsabilità, un principio d’impegno e di dovere nei confronti della generazione successiva. Per cui l’aspetto etico non può essere scisso dalle relazioni famigliari: la categoria degli affetti è di per sé limitata per comprendere il famigliare.
Le situazioni di crisi e di alta conflittualità più di altre danno risalto a quella che si può
definire la simbologia di base della relazione familiare, dove simbolo non vuol dire il
rapporto significante/significato (“questo sta per”), ma vuol dire ciò che unisce e che
connette (i figli ed i beni).
Il simbolico ha due codici di fondo: il codice affettivo e il codice etico.
Il codice affettivo comprende la speranza e la fiducia tra le parti, è un aspetto specifico
cruciale del legame; fede e speranza sono due cardini degli affetti, poter aver fiducia e
poter sperare nel legame con l’altro.
L’altro è il codice etico. Nella famiglia è sempre in ballo la questione della giustizia:
nell’incontro con le famiglie le persone parleranno subito in termini di giusto e ingiusto.
Riconoscere l’ingiustizia è facilissimo, ma chi si muove affinché ciò che è ritenuto giusto venga rimesso in corso? Ecco il transfert sulla legge è mosso da queste istanze e colloca in quest’ambito le sue storie.

Su altre logiche sembra muoversi la mediazione.La maggior parte degli autori ricordano come oggi il quesito che la mediazione propone è essenzialmente come trasformare in una opportunità la realtà della separazione resasi inevitabile. Un’opportunità mirata a cosa? Mirata, si dice solitamente, al benessere dei figli. Canevelli in una recente comunicazione congressuale (Napoli, 2003) sosteneva che l’esperienza di questi primi dieci anni di mediazione in Italia insegna che questo messaggio è delicato da gestire.
Delicato può voler dire anche ambiguo. Egli continuava: puntare sulla cosiddetta responsabilità genitoriale per indurre in qualche modo le persone a sottoporsi alla mediazione è un messaggio che si rivela non del tutto affidabile. In che senso? Nel senso più banale: che in molti casi la mediazione fallisce! Per un motivo molto semplice. Fallisce perché di solito le persone che vivono l’esperienza della separazione di fronte al messaggio teso a sollecitare l’attenzione ai bisogni dei figli, a quello che può succedere loro, in caso di gravi conflittualità, attribuiscono la colpa all’altro: io sarei responsabilissimo nei confronti dei miei figli, ma è tutta colpa dell’altro che non lo è.

Sembra emergere dunque che l’idea di trattare il tema dell’interdipendenza dall’altro non sia sufficientemente sorretta dal messaggio sulla comune responsabilità genitoriale – che può infatti implicare, a seconda del modo in cui viene decodificato – una colpevolizzazione sull’attenzione/disattenzione data/non data nei confronti dei figli.
Ogni volta che il movente alla mediazione è costituito soprattutto da sollecitazioni esterne – tanto più se autorevoli –a preoccuparsi per il benessere dei loro figli, si verifica che il – percorso o procede in maniera problematica o si interrompe nelle sue primissime fasi.
La motivazione è stata già avanzata in precedenza: se l’incontro con l’altro è dettato
soltanto da un’ambigua idea di responsabilità – che si ritiene che l’altro non solo non abbia ma non voglia neanche assumersi – il destino della mediazione, che presuppone la gestione pur faticosa e penosa della interdipendenza delle due parti, fallisce prima di iniziare.
Perciò Canevelli afferma che sia più corretto definire come messaggio, nella motivazione alla mediazione, quello della propria “convenienza”; come dire un messaggio egoistico al posto di un messaggio altruistico. Il messaggio più calzante è, a suo avviso, che se l’esperienza della perdurante interdipendenza dall’altro nell’evoluzione dei compiti di sviluppo successivi alla separazione/divorzio dovrebbe essere che essa è un’opportunità: da una positiva gestione dell’interdipendenza ne può derivare un miglioramento della dualità della vita dei familiari. Proporre loro solo dei doveri, delle responsabilità o piuttosto cercare di far intravedere dei percorsi di vita più soddisfacenti per se stessi, oltre che per le persone significative nelle loro relazioni familiari?

Come si vede aspetti assai diversi guidano e sostengono gli interventi a sostegno della
famiglia all’interno della cornice giudiziaria e quelli propri dei contesti giudiziari come la mediazione. Nella sezione di mediazione giuridica trovano posto contributi assai disparati su risposte fornite alle relazioni familiari in crisi in cui spesso l’unico elemento in comune è che il cambiamento che si dovrebbe produrre non è preceduto da un’esplicita domanda di cura delle relazioni familiari. Anzi in un contesto dove la funzione istituzionale è quella del controllo. Il problema che si pone è quindi quello ben noto della compenetrazione in tali contesti della funzione di controllo e della funzione di sostegno.7
Un intervento in corso di CTU è una terapia coatta o piuttosto – come sostiene Cirillo8- un accesso coatto ad un intervento clinico che può gradualmente accumulare il consenso crescente dei genitori magari sostenuti dai loro C.T.P. Crediamo comunque di essere riusciti in precedenza a definire la legittimazione sul piano teorico – sia giuridico che psicologico – dell’utilizzo clinico della C.T.U.9
Possiamo ora fare la stessa operazione rispetto alla mediazione,? Per la quale si pone ancora di più che per altri interventi la volontarietà della scelta degli utenti. Questa condizione ed altri requisiti etici, teorici e metodologici vengono infatti richiamati esplicitamente negli statuti dei vari organismi nazionali ed internazionale che forniscono le linee di indirizzo alla mediazione. Ed allora come può esserci una mediazione in un contesto in cui – si è detto – si verifica un accesso coatto all’intervento clinico?
E quest’ultimo aspetto non può che rimandare al fattore tempo, ultimo nodo – appena abbozzato – proveniente dall’intersezione tra il campo giuridico e quello della mediazione. La mediazione è un intervento più circoscritto nel tempo rispetto alla terapia e quindi più compatibile con i tempi del sistema giudiziario. Su come il problema tempo si intrecci in modo problematico ai meccanismi della Legge, nell’intersezione tra tempo della famiglia, tempo della Legge, tempo del cambiamento rimandiamo a quanto ho scritto10 e al bel contributo di Emilio Masina sul senso dell’azione nel funzionamento del processo civile nelle cause di separazione e divorzio.11


NOTE
1 Accezione dell’O.M.S. più ampia della definizione di “salute”, intesa come condizione di benessere fisico e psichico della persona.
2 Bilancetti M. “Responsabilità penale e civile delle professioni sanitarie”, cedam 5a ed., Padova, 2003
3 Pappalardo L., Mattucci A.” Tecniche di mediazione in ambito peritale”, Maieutica. N° 15-16, 2001
4 Devoto G.. Oli G. “Dizionario della Lingua Italiana” Le Monnier Firenze
5 De Leo G. « Oggetto, competenze e funzioni della psicologia giuridica » in Quadrio A., De Leo G. “Manuale di psicologia giuridica”, LED Milano, 1995
6 Cigoli V., Galimberti C., Mombelli M., “Il legame disperante”, Raffaello Cortina editore, Milano 1988
7 Mazzei D. “Interazione tra funzioni di aiuto e funzioni di controllo nella giustizia minorile” in de leo G., Quadrio A. cit.
8 Cirillo S. et al.”Ilcambiamneto nei contesti non terapeutici”, Raffaello cortina Editore, Milano, 1994
9 Cigoli V., Pappalardo L. “Divorzio coniugale e scambio generazionale.Per un uso clinico della consulenza tecnica d’ufficio”, Terapia familiare, n°56, 1996
10 Francini G., Pappalardo L., “La prospettiva relazionale in ambito giuridico tra consulenza ed intervento”, in Manfrina G., de Bernart R., D’Ascenzio J., Nardini M.., “La prospettiva relazionale”, Wichtig Editore Milano, 1993
11 Masina M., in Malagoli Togliatti M., Montinari G. “Famiglie divise”, Franco Angeli, ed.Milano,1995

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