LA PEER MEDIATION E IL COMPORTAMENTO PROSOCIALE: L’IPOTESI DI UNA RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA

di Luca Orazzo Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale - Allievo didatta di mediazione Centro Ecopsys - Napoli

e di Immacolata Sarnacchiaro
Psicoterapeuta Sistemico Relazionale - Allieva di mediazione Centro Ecopsys – Napoli isarnac@tin.it



I processi di mediazione dei conflitti sono stati sino ad ora di pertinenza culturale quasi esclusivamente dell’area sistemica e poco hanno interessato il mondo cognitivista. Tuttavia nel percorso esperenziale di seguito riportato, frutto della collaborazione tra operatori di formazione sistemica e di formazione cognitivo-comportamentale, si è anche formulata l’ipotesi che attraverso tecniche propriamente mediative si operasse, in realtà, una vera e propria ristrutturazione cognitiva dei confini e delle rappresentazioni di quelle dimensioni emotive intervenienti nel conflitto. Inoltre il percorso prescelto ha inteso da un lato favorire il riconoscimento degli stati emotivi dei singoli soggetti della ricerca, dall’altro consentire agli stessi di mettersi nei panni dell’altro e quindi accogliere ed elaborare informazioni sulla mente altrui anche al fine di “sciogliere” il conflitto.
La valutazione delle variazioni della disponibilità al comportamento prosociale ha inteso offrire una chiave di lettura dei possibili cambiamenti occorsi nei soggetti nel tentativo di verificare sperimentalmente l’ipotesi della ricerca.

Le premesse epistemologiche
Nel vasto quadro della mediazione comunitaria possiamo inscrivere la mediazione scolastica, quale campo prioritario per un intervento al tempo stesso formativo e preventivo per una gestione congrua dei conflitti.
In accordo con Stefano Castelli (1996), ci sembra che sia possibile sostenere che il processo di mediazione possieda delle precise caratteristiche, indipendentemente dai soggetti coinvolti e dal campo entro cui viene applicato. Tale posizione, naturalmente, non vuole negare le specificità dei diversi tipi di mediazione, dei diversi contesti di attuazione e dei singoli soggetti che di volta volta possono essere coinvolti, così come non nega che le competenze che il mediatore deve costruire e possedere, debbano essere precipue rispetto all’ambito della propria pratica.
Piuttosto risulta opportuno individuare le irriducibili caratterizzazioni del processo mediativo attraverso una definizione larga e condivisibile della mediazione, comunque priva di dogmatismi e sterotipi.
Anche in considerazione della complessità dell’argomento, laddove le semplificazioni risultano fuorvianti, sono state proposte molte definizioni della mediazione, ciascuna delle quali offre un contributo interessante allo sviluppo dei modelli teorici. Solo per coincisione faremo riferimento a due di esse e che sembrano coerenti con il lavoro sperimentale che verrà di seguito presentato.
La prima è proprio di Stefano Castelli: “La mediazione è un processo attraverso il quale due o più parti si rivolgono liberamente a un terzo neutrale, il mediatore, per ridurre gli effetti indesiderabili di un grave conflitto. La mediazione mira a ristabilire il dialogo tra le parti per poter raggiungere un obiettivo concreto: la realizzazione di un progetto di riorganizzazione delle relazioni che risulti il più possibile soddisfacente per tutti. L’obiettivo finale della mediazione si realizza una volta che le parti si siano creativamente riappropriate, nell’interesse proprio e di tutti i soggetti coinvolti, della propria attiva e responsabile capacità decisionale” (1996, p. 5).
La seconda definizione è quella proposta da Benoit Bastard e Laura Cardia-Vonèche. Per i due Autori la mediazione è “ (….) un processo di cooperazione in vista della risoluzione di un conflitto, durante il quale un terzo imparziale viene sollecitato dai protagonisti per aiutarli a trovare una composizione amichevole soddisfacente” (1988, p. 171).
Se la prima definizione trova ragione in un preciso sistema di riferimento teorico che è quello sistemico-relazionale, la seconda offre lo spunto per un’analisi dei sistemi motivazionali propri di ciascuno dei soggetti coinvolti nel processo di mediazione.
L’ottica sistemica ci risulta fondamentale sia per la definizione del termine “conflitto”, che è evidentemente alla base di ogni processo di mediazione, sia per valutare pienamente le risorse disponibili e gli effetti complessivi dell’operare con la mediazione.
Collocandosi in un ottica sistemico-relazionale possiamo intendere il conflitto, non solo come processo doloroso, ma come evento “normale” in un qualsiasi sistema biologico e quindi di per se stesso né buono né cattivo. I suoi effetti possono essere costruttivi, favorendo l’emersione di nuove soluzioni o nuovi modelli di riferimento, o distruttivi allorquando la struttura globale entro cui i conflitti avvengono sia portata alla dissoluzione.
I sistemi viventi hanno alcune caratteristiche che è opportuno sottolineare. Innanzitutto sono aperti in senso termodinamico: sono cioè in grado di scambiare informazioni ed energia con l’ambiente, più o meno prossimo. In secondo luogo hanno la capacità di costruirsi da soli (autopoiesi) trasformandosi di continuo sia in relazione alle proprie dinamiche interne, sia in relazione alle sollecitazioni provenienti dall’esterno. Attraverso processi di assimilazione e di accomodamento (Piaget, 1967), i sistemi autopoietici tendono a conservare l’organizzazione complessiva modificando invece le strutture cioè le specifiche e concrete realizzazioni di una certa organizzazione (Maturana, Varela, 1984, p. 56).
Inoltre per i sistemi viventi va presa in considerazione la dimensione temporale che rende “dinamici” i sistemi stessi. All’interno di questa dimensione in letteratura vengono considerati diversi tipi di cambiamento: alcuni che modificano dinamicamente molto poco lo stato del sistema (stato stazionario), altri che lo modificano gradualmente consentendo un’acquisizione progressiva della trasformazione ed infine altri ancora che determinano una modificazione “catastrofica” e tale da produrre una riorganizzazione delle strutture difficilmente riconducibili all’organizzazione complessiva dello stato precedente.
Queste considerazioni delineano alcune precondizioni indispensabili ai processi di mediazione. Osserva Castelli “se da un lato non devono esistere sistemi di controllo che prescrivano in anticipo i comportamenti da adottare, allo stesso tempo le parti coinvolte devono disporre di un equilibrio di poteri, e devono avere qualche interesse a mantenere integri almeno alcuni aspetti dell’organizzazione preesistente.
La seconda definizione di mediazione proposta ci introduce al concetto di cooperazione che rappresenta uno dei cardini dei sistemi motivazionali degli individui all’interno di una epistemologia cognitivo-evoluzionistica.
Dalla epistemologia evoluzionistica, infatti, possiamo trarre che l’uomo ha diverse disposizioni innate alla relazione, da cui emergono diversi sistemi motivazionali interpersonali a base innata. Queste disposizioni possono essere considerate come degli algoritmi per l’elaborazione delle informazioni o sistemi per la regolazione del comportamento e non riguardano solo bisogni corporei ma anche le forme basilari di interazione sociale. Le loro caratteristiche principali sono riportate nella tabella seguente.
La letteratura cognitivista riconosce cinque sistemi motivazionali interpersonali: il sistema agonistico, il sistema cooperativo, il sistema di attaccamento, il sistema di accudimento e quello sessuale (Liotti, 2000 p. 18).
Non richiedono la coscienza per operare, essendosi evolute prima della comparsa della coscienza umana e sussistendo in specie animali prive di autoscoscienza.
I risultati delle operazioni mentali guidate dalle disposizioni innate possono divenire coscienti nell’uomo, mentre le scelte coscienti possono influenzare le modalità con cui si attuano le disposizioni innate.
Le disposizioni innate alla relazione sociale divengono coscienti anzitutto in forma di esperienza emozionale.

















Tab. 1 Caratteristiche delle disposizioni innate

L’integrazione tra l’idea evoluzionista, in fondo semplice, “L’uomo ha diverse disposizioni innate alla relazione da cui emergono diversi sistemi motivazionali interpersonali a base innata” e l’altrettanto semplice idea base del cognitivismo “Il lavoro mentale è primariamente rivolto alla costruzione ed organizzazione della conoscenza” fonda la prospettiva unificata che possiamo chiamare cognitivo-evoluzionistica (Liotti, 2000 pp. 20-22).
In questo quadro la conoscenza viene distinta fondamentalmente in due grandi ambiti: conoscenza procedurale e conoscenza dichiarativa.
La prima viene definita anche conoscenza implicita o tacita o anoetica, riguarda il “sapere come (knowing how) e non è fondata sul linguaggio.
La seconda, definita anche conoscenza proposizionale o esplicita, attiene al “sapere che (knowing that) ed è fondata strutturalmente sul linguaggio.
Le emozioni, intese come esperienze soggettive, sono, in generale, il correlato nell’uomo di questo innato “sapere come” entrare nelle interazioni sociali fondamentali dalle quali dipendono, evoluzionisticamente, la sopravvivenza e l’adattamento all’ambiente di tutti i primati e tra essi naturalmente l’uomo. L’emozione, dunque, appare come un processo fisiologico che da un lato nel suo organizzare il movimento (e-movere, muovere fuori), non richiede la coscienza, ma dall’altro è anche il primo processo fisiologico che può diventare coscienza e fondare la coscienza (Damasio, 1999).
La mediazione, alla luce di queste considerazioni, può pertanto rappresentare quello spazio utile per procedere al riconoscimento delle emozioni da parte dei singoli componenti del processo, compreso il mediatore, e per provare a “mettersi nei panni dell’altro” cioè a condividere l’altrui stato emotivo. In questo senso essa costituisce un’occasione di crescita e di “educazione” alle relazioni sociali che trova nella scuola il terreno più fertile per il suo sviluppo.

La mediazione scolastica ed il comportamento prosociale
Gli studi sul comportamento prosociale comprendono ricerche sull’altruismo, sul comportamento d’aiuto, di cooperazione e di riguardo verso gli altri; tutti comportamenti intesi come azioni volte al fine di proteggere, favorire o mantenere il benessere di un determinato soggetto sociale. Implicito in tale descrizione è un ulteriore uso del termine “prosociale” inteso come capacità cognitiva nei confronti dell’altro: tendenza, cioè, a percepire i bisogni dell’altro, ad assumerne le prospettive, a viverne le emozioni e a reagire emotivamente in congruenza con la situazione.
La categoria “prosociale” può quindi essere applicata non soltanto a comportamenti singoli, ma anche a forme stabili di relazione nel contesto sociale. E’ apparso subito chiaro agli studiosi (D. Bar Tal, 1977, P. Mussen, N. Eisenberg-Berg, 1977, J. Reykowski, 1980, 1982, 1985; E. Staub, 1978, 1978; G. Villone Betocchi, 1985, 1990 ecc.) che hanno tentato in tempi recenti dei lavori di sintesi sui molti contributi della letteratura in proposito, che con il termine “prosociale” si coprono praticamente tutti i comportamenti che non siano di antagonismo, o di danneggiamento, aggressivi o distruttivi addirittura. E’ alla luce di questa considerazione che Staub preferisce chiamare il comportamento prosociale: comportamento sociale positivo.
Inoltre la vastità del campo di studio rende praticamente impossibile trovare delle variabili che non siano, più o meno direttamente correlate al fenomeno prosociale. Come osserva Reykowski, il comportamento prosociale, in quanto forma di comportamento sociale, è controllato da un complesso sistema regolatore nel quale l’intervento di qualsiasi fattore che possa mutare lo stato del sistema può influenzare le sue funzioni regolatrici, compreso, quindi, il comportamento prosociale (Reykowski, 1982).
Nella convinzione che l’insegnamento delle tecniche mediative, in forma prettamente esperenziale, contribuisca al generarsi di una cultura della mediazione e che questa possa intendersi come spazio per comprendere le ragioni dell’altro e mettersi nei panni dell’altro in termini cognitivi ed emotivi, abbiamo ritenuto opportuno misurare, attraverso questionari standardizzati, l’eventuale correlazione tra l’acquisizione della cultura mediativa e l’implementazione del comportamento prosociale.
La nostra ricerca, pertanto, ha provato a verificare se, nei soggetti che avevano partecipato ad un protocollo esperenziale di mediazione sistemica, si sia determinato un atteggiamento di disponibilità ad un comportamento prosociale maggiore rispetto a quei soggetti che invece non avevano partecipato al protocollo di mediazione.

Il protocollo di mediazione
La scelta dell’ambito d’intervento è connessa a griglie di lettura sistemiche che non possono non considerare la scuola quale campo relazionale fondamentale nella crescita e come luogo relazionale esteso di scambio sociale, di identità, di confronti e di scontri.
Le tematiche, quindi, connesse alla gestione dei conflitti diventano il fulcro intorno al quale viene articolato il progetto di mediazione. Il recupero in quest’ambito delle logiche mediative e sistemiche si fonda su una definizione della conflittualità che ne possa cogliere gli aspetti evolutivi ed in modo particolare quelli connessi alle turbolenze emotive che si attivano nell’incontro-scontro con l’altro. L’introduzione della mediazione nel sistema scolastico rappresenta un’opportunità capace di restituire responsabilità ai giovani in modo che, all’interno di un campo esperenziale, essi possano acquisire consapevolezza delle proprie dinamiche emozionali, intese quali motori delle relazioni.
L’acquisizione di modalità alternative di gestione dei conflitti mira alla promozione di circuiti valutativi più “ragionati” ed “equilibrati” rallentando le reazioni emotive che spesso esitano in “acting”.

Tale progetto si articola all’interno di una griglia di ricerca che attraverso monitoraggio continuo, analisi e verifica della qualità e dell’efficacia degli interventi psicologici proposti, mira a tutelare sia gli attori del sistema scolastico, sia gli obiettivi di prevenzione auspicati.
In modo particolare il protocollo di mediazione si è proposto di:
- favorire il riconoscimento degli stati emotivi;
- consentire una gestione degli stessi attraverso attività relazionalmente funzionali;
- permettere una gestione dei conflitti quanto più possibile costruttiva all’interno di una matrice esperenziale;
- promuovere valutazioni serene e ragionate dei contesti evitando reazioni immediate ed impulsive;
- migliorare l’autostima dei soggetti e le capacità relazionali.
In un quadro più generale il programma di intervento di mediazione ha inteso perseguire due linee di scopi di particolare rilievo anche in relazione alla specifica età evolutiva dei soggetti interessati: da un lato migliorare la capacità di relazione anche attraverso una redifinizione sia cognitiva sia emotiva dei conflitti, attenuando le tendenze ai comportamenti di devianza minorile; dall’altro implementare il rendimento scolastico, le capacità di ragionamento astratto e la motivazione intrinseca all’apprendimento scolastico.
E’ stata, ancora, posta particolare attenzione ad un’azione di trasferimento delle competenze di mediazione della conflittualità.
In conclusione il protocollo di mediazione si è articolato in due specifiche fasi:
a. fase di sensibilizzazione dedicata al riconoscimento delle emozioni ed alla definizione in piccoli gruppi dei principali comportamenti osservati in un video proiettato, sulla vita di alcuni primati;
b. fase di esperienza diretta, attravero simulate, di esercizio della mediazione su conflitti non reali ma realistici.
Al protocollo di mediazione sono stati per ora sottoposta 176 studenti delle classi seconda di una scuola media inferiore.

L’ipotesi della ricerca
Abbiamo formulato l’ipotesi che attraverso una migliore gestione della conflittualità all’interno del sistema scolastico tra i singoli alunni e tra gli alunni ed i docenti, sia possibile facilitare un incremento della capacità di “mettersi nei panni di” ed in questo senso aumentare la tendenza al comportamento prosociale. Ed in modo particolare abbiamo supposto che l’esperienza diretta di tecniche mediative possa essere correlata positivamente con una maggiore disponibilità all’aiuto in un compito ecologicamente valido. Abbiamo ritenuto, infatti, che solo una situazione congrua con i valori significativi per l’età adolescenziale potesse offrirci un parametro valido rispetto alla misura di quello che è un comportamento in ogni caso di tipo “morale”.

I soggetti
I soggetti che hanno partecipato alla ricerca sul comportamento prosociale sono stati 176 di cui 96 femmine e 80 maschi. L’età risulta compresa tra gli 11 ed i 13 anni.
Dei soggetti studiati 5 sono stranieri, di cui 1 europeo e 4 extracomunitari. I soggetti hanno lavorato durante le ore di lezione, sia in presenza sia in assenza dei docenti. La ricerca è stata condotta in sei classi seconde medie, scelte in modo randomizzato.

Disegno sperimentale
A ciascun soggetto, in ciascuna classe, è stato somministrato un questionario di misura del comportamento prosociale sulla base del lavoro di Bar Tal (1978), e tarato in Italia da Oneroso e Villone Betocchi (1987).
Il questionario prevede due situazioni e due condizioni.
Le due situazioni prevedono:
1) che un amico, per accompagnare il protagonista ad un’importante gara sportiva, debba rinunciare ad incontrare una persona affettivamente importante per lui (situazione 1);
2) che un amico, per accompagnare il protagonista ad un’importante gara sportiva, debba rinunciare ad un importante appuntamento di lavoro (situazione 2);
Le condizioni da esaminare sono anch’esse due:
a. l’amico fornisce l’aiuto al protagonista;
b. l’amico non fornisce l’aiuto al protagonista.
Lo stesso questionario è stato compilato prima della fase di sensibilizzazione del processo di mediazione e dopo la conclusione del processo di mediazione (n. 1 settimana dopo).
Abbiamo quindi misurato le differenze registrate tra il test pre-sensibilizzazione e pre-esperienza di mediazione ed il retest effettuato dopo la sensibilizzazione e l’esperienza di mediazione, anche valutando l’incidenza della variabile “importanza del compito”, relativa alla situazione 2 e della variabile sesso.

Lo strumento di misura
A ciascun studente è stato consegnato un ciclostilato nel quale viene chiesto di mettersi nei panni del protagonista della storia. La storia riguarda uno studente che deve recarsi ad un appuntamento per un’ importante gara sportiva e che, privo di mezzi di trasporto e interessato a non perdere la gara, si rivolge ad un amico per chiedere un passaggio.
Il protagonista chiede un passaggio ad un amico/a che dispone di un’auto ma che per accompagnarlo deve rinunciare ad incontrare il/a proprio/a partner, che non vede da una settimana. (Situazione a)
Il protagonista chiede un passaggio ad un amico/a che dispone di un’auto ma che per accompagnarlo deve rinunciare ad un importante appuntamento. (Situazione b).
Per ciascuna situazione ai soggetti vengono prospettate due possibilità: l’amico fornisce l’aiuto richiesto (condizione a); l’amico non fornisce l’aiuto richiesto (condizione b).
Le istruzioni dell’esperimento richiedono che il soggetto si metta nei panni del protagonista nelle due situazioni prospettate rispondendo alle domande poste nel ciclostilato, relative a ciascuna situazione e a ciascuna condizione, nell’ambito della situazione esaminata.
Le domande riguardano una scala bipolare di sette punti attraverso la quale si chiede, sia nella condizione A sia in quella B, quanto, secondo il soggetto, la persona interpellata fosse ritenuta “in dovere” di fornire l’aiuto richiesto; una scala di sette punti con la quale si chiede, nella condizione d’aiuto, quanto si senta grata e quanto, nella condizione di non aiuto, si senta risentita.
Infine ai soggetti sono state poste due tipi di domande aperte per ciascuna condizione:
- in condizione a) perché l’amico fornisce l’aiuto e quali i sentimenti del soggetto nei suoi riguardi;
- in condizione b) perché l’amico non fornisce l’aiuto richiesto e quali i sentimenti del soggetto nei suoi riguardi;
Le risposte alle domande aperte sono state raccolte in categorie.

L’elaborazione dei dati
L’elaborazione acquisiti ha tenuto conto della variabile sesso in ciascuna delle due condizioni. I dati sono stati elaborati ricorrendo al test di significatività del c2 e abbiamo valutato i risultati significativi per p<.05.

Discussione
Dai dati fin qui esaminati, possiamo osservare che lo svolgimento di esperienze di mediazione determina un incremento della tendenza ad aspettarsi aiuto, nel ruolo di protagonista, (c2 = 15.31; df = 3; p <.005), un aumento del sentirsi “vicino” all’amico che presta aiuto (c2 = 16.22; df = 3; p <.005), ed un incremento della “delusione” rispetto all’aiuto non offerto (c2 = 16.18; df = 3; p <.005), nella situazione a).
Questi incrementi sono registrati anche nella situazione b), sebbene in misura meno marcata. Viene in tal senso sviluppato dai soggetti un ragionamento morale che considera più irrinunciabile l’impegno di un appuntamento di lavoro, rispetto a quello di un appuntamento sentimentale.
E’ altresì interessante osservare che tali aumenti dell’atteggiamento prosociale sono stati riscontrati dopo una settimana dall’esperienza di mediazione, consentendo, quindi, l’ipotesi che la “cultura mediativa” ed il conseguente incremento di una disponibilità prosociale possano attecchire in modo stabile nei soggetti studiati.
In questo senso sarebbe auspicabile una ripetizione dei test anche a tempi più lunghi (un mese – sei mesi – un anno) permettendo in questo modo una verifica più longitudinale dell’ipotesi della nostra ricerca.
Ancora in accordo con quanto da noi atteso l’incidenza della variabile sesso sembra non essere particolarmente significativa: sebbene più ridotto che nelle femmine l’incremento delle attese di sostegno di aiuto e di vicinanza emotiva all’amico che presta aiuto è significativo anche nei maschi sebbene in misura lievemente ridotta rispetto alle femmine.

Conclusioni
Il lavoro sin qui svolto sembra essere in accordo con la letteratura (Graham, Cline, 1989, Burrel, Vogl, 1990, Lieberfeld, 1994).
Inoltre possiamo, in accordo con Gentry e Beneson (1992, 1993) ipotizzare che il descritto effetto “peace virus”, la possibilità, cioè, di trasferire delle competenze acquisite a scuola alle modalità di soluzione pacifica dei conflitti all’interno di altri ambienti, sia basato proprio su un aumento della tendenza prosociale. Questo depone sempre più verso un valore non solo tecnico della mediazione scolastica anche e soprattutto culturale e stimolante comportamenti cooperativi, a sfavore di quelli agonistici-competitivi.
In questo senso la peer mediation da noi valutata protrebbe indurre un incremento delle capacità metacognitive e di cognizione sociale stimolando la competenza a riconoscere nell’altro la coesistenza di stati emotivi diversi pur in una situazione di marcata conflittualità.
In accordo con la Teoria della mente (Bretherton e Beeghly 1982; Premack e Woodruff 1978; Wellman, 1979), i concetti relativi alle emozioni emergono e ed incrementano con l’aumentare dell’età: è quindi più probabile che adolescenti ed adulti cerchino di inferire sentimenti ed emozioni degli altri spontaneamente e senza che venga loro esplicitamente richiesto. Tuttavia, in situazioni, conflittuali, (Harris et al. 1987) all’interno delle quali il sistema agonistico tende a prevalere sugli altri sistemi, il processo di mediazione sembra consentire una maggiore disponibilità alla relazione ed alla comprensione dell’altrui stato mentale.
Riteniamo, a questo punto, interessante provare a correlare gli stili d’attaccamento, valutati per i ragazzi fino ai 12 anni attraverso la CAI e per quelli di età superiore attraverso l’AAI, con le capacità empatiche all’interno del processo mediativo.


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