LA MEDIAZIONE PENALE NEL SISTEMA MINORILE

di Laura Mattucci
Praticante avvocato
itfv.treviso@tin.it

Parlare di mediazione richiede, innanzitutto, una precisazione di carattere terminologico, vista la mancanza di un significato univoco ad essa attribuibile.
Si parla, infatti, di mediazione in termini di:
- tecnica di intervento sociale volta a risolvere conflitti tra individui;
- tecnica finalizzata ad affrontare vicende delimitate nel tempo e nello spazio;
- modalità di risoluzione alternativa delle controversie definite dal diritto.
Ed è proprio come processo di risoluzione dei conflitti che la mediazione è divenuta esperienza consolidata in vari paesi europei i quali nel darle concretezza hanno attuato scelte di intervento diverse: la mediazione ha talvolta assunto funzione preventiva rispetto al processo, alternativa allo stesso (intesa come rinuncia all’esercizio dell’azione penale), come vera e propria modalità di svolgimento del procedimento a carico del minore( essendo in primis proprio nel diritto minorile che la mediazione trova il suo habitat naturale)
Oggi la mediazione si presta ad essere applicata in molteplici e diversi ambiti relazionari (familiare, sociale, scolastica, culturale, penale) specie nell’esperienze all’estero, dove è ormai considerata una modalità quotidiana di gestione dei conflitti, un patrimonio di conoscenze e pratiche trasferibili, con gli opportuni adattamenti, alla situazione italiana, utili per elaborare strategie, ed in grado di attuare le recenti previsioni legislative.
La mediazione s'inserisce in un contesto di diffusione di altre e diverse procedure di giustizia negoziata, rientra in quel contenitore generale che, identificabile nella sigla ADR, rappresenta le modalità di risoluzione delle controversie al di fuori delle corti ordinarie di giustizia, è il frutto della necessità di contenere tempi, rigore, costi e formalismo del giudizio ordinario.
La mediazione s'innesca, infatti, nella prospettiva di un diritto penale sostanziale che da tempo s'interroga sulle possibili alternative alla pena, non solo a quella detentiva, ma alla pena tout court, individuando nella mediazione un terreno su cui investire al fine di poter soddisfare il bisogno di risposte nuove e non esclusivamente punitive, diverse dal rigido sistema tradizionale nel quale, peraltro, la pena trova il suo momento di legittimazione.
La mediazione germoglia oltre i confini di un tale tipo di ordinamento giuridico, riappropriandosi di “capacità e virtù di autoregolamentazione dei conflitti1” secondo un modello consensuale, che prefigura una nuova dimensione del diritto.
Non sembra, pertanto, un caso che tale sviluppo si sia avuto per lo meno in un primo momento nei sistemi di common law, in cui il vincolo “di supremazia” della lex scripta è culturalmente e giuridicamente meno rigido.
Pur non essendo ancora possibile valutare, per lo meno concretamente, sul piano giuridico gli effetti provocati dallo sviluppo della mediazione, anche a causa di fenomeni di resistenza all’interno e all’esterno dell’istituzione giudiziaria, è possibile, comunque, sottolineare il cambiamento di paradigma in materia di risoluzione dei conflitti a cui la mediazione tende, attraverso la sostituzione di un modello conflittuale con uno consensuale, da un diritto imposto, ad un diritto contrattuale, creando un nuovo modello d’azione non fondato sulla razionalità strumentale, ma su di una comunicazione tale da prefigurare il reato in modo nuovo, diverso e dinamico.
La giustizia negoziata assume un valore particolare, perché consente un diritto penale minimale, pene e misure diversificate, un ridimensionamento del ricorso alla pena carceraria, modi alternativi di risoluzione delle controversie.
Rispetto al contesto giuridico penale, la mediazione – sia essa finalizzata alla riparazione del danno, alla riconciliazione tra autore e vittima, alla realizzazione di condotte aventi efficacia estintiva del reato, o al compimento di un percorso riconciliativo valutabile nel procedimento di sorveglianza – esplica la funzione di strumento di soluzione dei conflitti a cui ricorrere nelle diverse fasi della vicenda processuale come forma di giustizia negoziata.
La mediazione si presenta infatti, come processo attraverso il quale due o più parti si rivolgono liberamente ad un terzo neutrale al fine di ricomporre il conflitto attraverso la riparazione del danno alla vittima, o la riconciliazione tra vittima e autore di reato.
Non troviamo nel nostro ordinamento giuridico una definizione legislativa di mediazione non essendovi, al dì là di recenti proposte legislative, ancora una normativa specifica. Bisogna, infatti, attingere al decreto legislativo in materia di attribuzione delle competenze penali al giudice di pace d.l.g. 218/2002 – dove la mediazione è contemplata esplicitamente come tecnica di risoluzione dei conflitti, rispetto a materie di sua competenza–, nonché al d.P.R. 448/88 recante disposizioni relative al procedimento a carico di imputati minorenni.
Comunque, in attesa di un’univoca e precisa individuazione normativa di mediazione ci si rifà a Bonafè Schmitt che definisce la mediazione come un processo attraverso il quale una terza persona neutrale consente alle parti di confrontare i propri punti di vista, di cercare una soluzione al conflitto che li oppone, come una delle forme di soluzione negoziata dei conflitti. Ma, al di là di semplici definizioni è alla logica operativa che bisogna far riferimento”, sono il contesto, gli attori, i referenti istituzionali, le competenze, i vincoli normativi, le variabili che costituiscono le forme di mediazione.
Più opportunamente bisognerebbe parlare non della, ma delle definizioni di mediazione, o meglio, i tanti modi per parlare di mediazione. La mediazione è dunque una modalità latu sensu di gestione del conflitto che, però, si differenzia, a seconda dei campi in cui è applicata, per le tecniche utilizzate, quelle stesse che le permettono di affrontare situazioni tra loro diverse: dalle controversie in ambito lavorativo, a conflitti a rilevanza penale o civile.
In tale contesto, ha assunto rilevanza fondamentale la Raccomandazione n°87 del 17 settembre 1987 del Consiglio d'Europa sulla semplificazione della giustizia penale, nel quale termini come semplicità, rapidità ed efficienza sono dominanti, o per meglio dire "denominatore comune è l'aspirazione ad una giustizia che sprechi meno le sue energie e le sue risorse, in armonia con gli orientamenti di fondo della legge penale".
La promozione di strumenti riparativi, e in primis la mediazione tra autore e vittima del reato, deriva, tra l’altro, dalla presa di posizione delle Nazioni Unite in relazione all’opportunità di adottare, a livello nazionale e internazionale, politiche di riparazione e sostegno alle vittime. Ci si riferisce alle due Risoluzioni adottate dalle Nazioni Unite con la “Dichiarazione di Vienn2” che, specificamente, incoraggiano il ricorso a modelli d'intervento sul conflitto fondati sulla riparazione delle conseguenze dannose del reato e orientati alla riconciliazione autore-vittima.
Rispettivamente nei paragrafi 27 e 28 della Dichiarazione di Vienna, le Nazioni Unite hanno stabilito due diversi piani di azione: l’uno volto all’adozione di attività e/o di servizi di supporto delle vittime, l’altro teso ad incoraggiare la predisposizione di programmi di riparazione e/o riconciliazione, indirizzati non solo alle vittime e agli autori come destinatari privilegiati, ma anche alla comunità, intesa in senso lato e interessata dalla commissione del reato.
Da una prima lettura dei paragrafi 27 e 28 della Dichiarazione di Vienna3 emerge una particolare attenzione ai profili di vittimizzazione connessi alla commissione del reato, che si traduce nella promozione di un duplice intervento di supporto diretto a favore delle vittime, anche attraverso l’istituzione di fondi di garanzia e di sostegno indiretto tramite la sollecitazione di campagne di sensibilizzazione sui diritti delle persone offese.
Ci si deve chiedere se la giustizia riparativa possa considerarsi propriamente un modello autonomo di giustizia o, più semplicemente, un modo diverso di declinare la giustizia penale, per esempio attraverso l’ampliamento e la diversificazione del sistema sanzionatorio. In realtà, la giustizia riparativa non intende farsi carico in via esclusiva del conflitto originato da un reato, assumendo una sorta di monopolio nella gestione di determinate fattispecie di reato. Essa, infatti, opera su un conflitto che è pur sempre “definito” dal diritto penale, e del quale il diritto penale può riappropriarsi nel momento in cui la mediazione o la riparazione non vadano a buon fine.
La giustizia riparativa e, nella specie, la mediazione rappresentano un paradigma di giustizia autonomo e alternativo tanto al modello “classico” di giustizia penale, fondato sulla retribuzione intesa come criterio di legittimazione della sanzione e come parametro di commisurazione della pena, quanto al modello c.d “moderno”, per lo più orientato alla prevenzione del reato che richiede solo una verifica di effettività basata unicamente sui risultati.
I principali obiettivi perseguiti dalla giustizia riparativa possono esser raggruppati e distinti in base al rapporto relazionare con il sistema penale-processuale e al target di destinatari delle politiche di riparazione.
Parliamo, pertanto, di obiettivi incidenti sul funzionamento dei meccanismi interni e/o sui soggetti che il sistema penale incanala in ruoli predefiniti dal diritto, ma anche di obiettivi sistematici riguardanti soprattutto interessi esterni al funzionamento del sistema penale da un punto di vista strutturale.
Questi obiettivi sono rivolti a:
- il riconoscimento della vittima: la giustizia riparativa ha come obiettivo primario la presa i carico dei bisogni delle vittime di reato le quali, di solito, rivestono una posizione marginale all’interno del processo penale4. Ciò significa che, rispetto alla commissione di un reato, la condanna del colpevole e la commisurazione della una pena, dosata in base alla gravità del fatto, lasciano il posto al riconoscimento della sofferenza impartita alla vittima;
- la riparazione dall’offesa nella sua dimensione globale; infatti, oltre alla componente economica del danno dovrebbe esser valutata, ai fini della riparazione, anche la dimensione emozionale dell’offeso, senza con questo perder di vista il principio della proporzionalità;
- l’autoresponsabilizzazione del reo: sebbene la giustizia riparativa rappresenti un approccio al reato che supera la visione orientata sul solo “autore”, quale destinatario dell’intervento punitivo, non marginalizza il reo, né comprime le garanzie a lui riservate dal diritto penale;
- il coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione: la comunità dovrebbe poter svolgere un duplice ruolo, non solo quello di destinatario delle politiche di riparazione ma, anche e soprattutto, quello di autore sociale nel percorso di “pace” che muove dall’azione riparativa del reo;
- il rafforzamento degli standard morali: dalla gestione comunicativa del conflitto e dallo svolgimento di attività riparative dovrebbero emergere concrete indicazioni di comportamento per i consociati, condizione necessaria affinché ciò avvenga è che la comunità possa conoscere sia il processo che porta alla riparazione, sia gli esiti concreti della stessa. In definitiva, la giustizia riparativa non sembra intaccare la funzione simbolica della legislativa penale, potendo anzi concorrere a quella funzione di orientamento delle condotte e di ingegneria sociale che da tempo si riconosce alla legge;
- il contenimento del senso di allarme sociale: si deve pensare che la commissione di un reato ha spesso come conseguenza immediata il verificarsi di un diffuso allarme sociale, un’insicurezza che dovrebbe esser controbilanciato da un segnale dello Stato di rigetto del comportamento violento, e di conseguente attivazione della risposta istituzionale. Spesso, però, la risposta istituzionale, con i suoi meccanismi complessi d'attivazione, non riesce a soddisfare il “bisogno collettivo di sicurezza” sollecitato dalla reiterazione del comportamento delittuoso. Ciò che deve interessare all’ordinamento è la valutazione delle conseguenze della sanzione, la flessibilità delle risposte dosate sul tipo e sull’intensità del conflitto, orientate verso gesti di riparazione e riconciliazione.
Tecniche e strumenti d’intervento sul conflitto ascrivibili alla giustizia riparativa sono individuabili dai documenti preparatori del Decimo Congresso delle Nazioni Unite che ha portato alla Dichiarazione di Vienna.
La mediazione e la riparazione possono considerarsi a pieno titolo come modelli di “problem solving” di tipo negoziale, giacché consentono una restituzione del conflitto alle parti. Nella mediazione la soluzione del conflitto scaturisce dalla dialettica del rapporto vittima/autore che, attraverso un percorso, le cui fasi intermedie sono costituite dall’incontro, dal dialogo, dall’offerta di scuse formali o di riparazione da parte del reo, dall’accettazione delle scuse e/o della riparazione da parte della vittima, che può portare ad una risoluzione positiva del conflitto stesso.
Ed infatti, il ricorso a strumenti di giustizia negoziata permette di semplificare il procedimento penale (il che non è cosa da poco): non si tratta di evitare il processo, ma di migliorarlo; non si tratta di accelerare la giustizia, ma di renderla giusta. In definitiva, le procedure negoziali, così come prospettate, devono favorire l'emergere di nuovi modi di regolazione sociale, presidiando le garanzie autentiche, nelle quali garante deve essere sempre il giudice; diversamente, si corre il rischio che le procedure negoziali siano l'introduzione dell'economia del "mercato nell'amministrazione della giustizia"
A partire dalla metà degli anni '70 anche sulla scia delle esperienze di "diversion" attuate in altri paesi europei e delle ricerche nazionali ed internazionali sui potenziali effetti negativi insiti nell'interazione fra minorenni e giustizia penale, si è andato affermando il principio della "minima offensività del processo", ovvero della riduzione al minimo degli interventi giudiziari e, in particolare, di quelli di natura coercitiva e restrittiva. Tale assunto è stato in primis recepito nel sistema del diritto minorile.
Sviluppare la mediazione nell’ambito giudiziario minorile significa provare ad accantonare, là dove sia possibile, la concezione della pena nel suo significato retributivo-riconcializzante, per lasciare il posto alla riparazione, intesa quale modalità responsabilizzante: è l’incontro l’elemento caratterizzante, il luogo in cui reo e vittima hanno la possibilità di riaprire una comunicazione interrotta dal reato, o di costruirne una nuova.
In questo specifico contesto, il giudice è chiamato a verificare nel concreto la capacità offensiva che il processo può rivelare nei confronti nei confronti del minore e, conseguentemente a valutare l'opportunità di continuare il procedimento, o di interromperlo, in vista di altri scopi educativi. In generale, infatti, si assiste ad una graduale modifica delle nostre politiche penali, con un progressivo spostamento del modello giuridico basato sulla "posizione" verso uno maggiormente orientato alla "riparazione", un'evoluzione di cui molti5 parlano in termini di "modello penale mirante all'integrazione sociale", o più semplicemente come di “nuova forma di politica partecipativa”.
D’altro canto anche i recenti interventi del Consiglio d’Europa indicano la mediazione in materia penale come uno degli strumenti alternativi idonei a fornire soluzioni più rapide ed efficaci ai conflitti tra vittima e reo. Realizzando forme di giustizia riparativa si pensa di ottenere un alleggerimento del peso incombente sulla giustizia contenziosa ed una più celere soddisfazione degli interessi della vittima, a cui non sempre importa l’inflizione della sanzione penale, quanto piuttosto la riparazione della lesione sofferta. Ciò vale, naturalmente, per i reati di minor rilievo e, nello specifico, le sperimentazioni in ambito penale minorile ne sono un esempio.
Solo intensificando gli sforzi in questa direzione, la giustizia ordinaria sarà in grado di concentrare le risorse messe a sua disposizione per reprimere le forme più gravi di criminalità, obiettivo al quale mirano, d’altra parte, le numerose iniziative intraprese sul piano della cooperazione internazionale e, rispetto al quale, strumento privilegiato appare la mediazione (Victim – offender mediation).
La comunità internazionale sempre più sensibile a queste tematiche, le sta recependo e proponendo quali nuovi strumenti per intervenire nella giustizia penale al fine di renderla più costruttiva e meno repressiva.
Infatti, negli ultimi anni, sono state adottate la Raccomandazione del consiglio d’Europa n.19 sulla mediazione in materia penale e la bozza di Regole minime delle Nazioni Unite sull’uso dei programmi di giustizia riparativa nell’ambito penale elaborata nel corso dell’ultimo Congresso mondiale sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti (Vienna 2000).
In tale prospettiva, risulta importante garantire l’uniformità in merito ai criteri applicativi, finalità politico-criminali, standar qualitativi delle nuove forme di risoluzione dei conflitti in materia penale, uniformità sia a livello di ogni singolo Paese, sia a livello comparatistico.
La Raccomandazione e le Regole minime prevedono programmi di giustizia riparativa “generalmente fruibili” e “utilizzabili in ogni stato e grado del processo” e riconosciuti ufficialmente dai poteri pubblici.
Infatti, la presa in carico degli effetti dei conflitti determinati dalla commissione di un reato richiede, da parte dei mediatori, profonde capacità di gestione delle emozioni e dei sentimenti espressi dall’autore e dalla vittima del reato. La Raccomandazione, pertanto, afferma che “i mediatori dovrebbero ricevere una formazione iniziale di base ed effettuare un training, prima di intraprendere l’attività di mediazione”.
La formazione e il tirocinio devono “favorire l’acquisizione di un alto livello di competenza che tenga presenti le capacità di risoluzione del conflitto, una conoscenza base del sistema penale” e un'idonea preparazione che includa non solo le “tecniche” di mediazione, ma un'adeguata conoscenza del sistema penale e degli effetti processuali e penali dei programmi di giustizia riparativa.
Pertanto è necessario un continuo lavoro di coordinamento, consultazione e raccordo fra gli operatori del settore e le autorità, nonché l’esigenza d'adeguate forme di ricerca, valutazione e controllo delle pratiche riparatorie, accompagnati dall’elaborazione di codici di condotta e regole comuni.
Ulteriore condizione necessaria s'individua nei metodi di valutazione e controllo scientificamente fondati nelle mani di esperti, un necessario rigore e continuità della verifica e coordinamento dei programmi di giustizia riparativa.
Secondo il Consiglio d’Europa, i servizi di mediazione dovrebbero venire monitorati da un ufficio competente (art.20 Racc.): si tratterebbe di un “organo di vigilanza”, un'authority indipendente cui affidare la verifica dell’effettiva uniformità di applicazione delle pratiche riparatorie e dell’effettivo rispetto delle norme deontologiche e dei codici di condotta.
Ciò che pare caratterizzare, almeno sul piano formale e al di là dei contenuti di fondo, i programmi di mediazione – riparazione, è l’apertura alla libera, spontanea adesione da parte degli interessati: il principio base6, la “regola d’oro” senza la quale tali programmi non sono nemmeno pensabili.
La partecipazione volontaria è un elemento indispensabile della mediazione, poiché essa può riuscire solo se le parti sono disposte a parteciparvi”; inoltre l’accettazione degli interessati deve “coprire” tutte le fasi dell’iter, (potendo venire revocata in ogni momento) e sorreggere gli eventuali accordi risarcitori o riparativi (art.31 Racc.,art.7 Regole min.).
I partecipanti, pertanto, devono esser messi in condizione di prestare un consenso consapevole, informato e spontaneo, mai viziato da pressioni o “altri mezzi subdoli”.
Strettamente connesso al principio partecipativo è il tema della confidenzialità: l’incontro di mediazione è protetto essendo impedita qualsiasi forma di diffusione all’esterno dei contenuti, salvo che con l’accordo dei partecipanti. Questa appare, infatti, come condizione indispensabile per garantire un'effettiva libertà di scambio alle parti e per una trattazione a tutto tondo del conflitto e delle sue implicazioni: è la condizione per un “risultato positivo”.
Il requisito della confidenzialità appare talmente cruciale che anche il legislatore italiano, nel decreto legislativo sul giudice di pace, pur dedicando alla mediazione uno spazio esiguo, non manca di precisare l'inutilizzabilità processuale delle dichiarazioni rese dalle parti davanti ai mediatori.
Nella Raccomandazione del Consiglio d’Europa si riconosce la pluralità di forme assunte dalla mediazione, per esempio diretta e indiretta7, ma si prevede che “in tutti i casi il mediatore sia imparziale”.
L’incontro di mediazione, di per sé volto ad offrire alle parti uno spazio e un tempo per chiarirsi, può anche esser l’occasione per accordi aventi ad oggetto il risarcimento del danno e la riparazione delle conseguenze del reato.
Anche questa fase ulteriore ed eventuale del percorso deve essere sorretta dai medesimi principi generali, primo fra tutti la volontarietà: infatti, tali accordi devono essere “conclusi volontariamente”. Questo vale per tutte le parti coinvolte: per la vittima che non dovrà subire pressioni o sentirsi costretta a sottoscrivere una transazione che ritiene lesiva dei suoi interessi, ma anche, ed in modo particolare, per il reo che deve sostenere, materialmente e giuridicamente, l’adempimento degli impegni: per questo, le fonti internazionali prevedono che le obbligazioni riparatorie rispondano ai criteri di ragionevolezza e proporzione.
Non si deve dimenticare, infatti, che la riparazione, in grado talvolta anche di incidere sull’esito del giudizio penale, viene elaborata dalle parti, pur sotto la guida e il controllo dei mediatori, e non dell’autorità giudiziaria capace di istruire la domanda della vittima, valutarne la fondatezza e la legittimità, giudicarne l’equità del contenuto, imporre al reo l’obbligo di adempiere.
Del resto, è proprio la non tecnicità della figura del mediatore, così come anche l’assenza di giudizio, a far ritenere particolarmente importante la collaborazione degli avvocati nella fase negoziale dell’iter avente ad oggetto la riparazione.
Pur conservando il clima consensuale e dialogico dell’incontro, la presenza dei difensori si configura come un supporto tecnico autorevole per “confezionare” il miglior accordo, quello conforme al desiderio delle parti, alle loro concrete possibilità e alla giustizia.
Anche nel percorso di giustizia riparativa trova spazio la presunzione di innocenza, principio fondamentale di ogni procedura giudiziaria di uno Stato civile e democratico. Pertanto, la partecipazione, peraltro volontaria, al programma non può mai essere letta giudiziariamente come accertamento di responsabilità o ammissione di colpevolezza8: appare netta la separazione tra processo penale e mediazione.
L’accertamento della responsabilità non potrà che seguire le regole proprie del rito e derivare esclusivamente da un dibattimento davanti al giudice, in contraddittorio tra le parti assistite dai difensori. In tutti i casi in cui la partecipazione positiva al programma comporti una definizione anticipata del giudizio, la pronuncia del relativo provvedimento non potrà avere natura di condanna, anche nel caso in cui si applichi una qualche misura di risposta al reato.
Il problema fondamentale, in realtà, è diverso: proprio perché normalmente il programma di giustizia riparativa costituisce una forma di diversion o d'alternativa al processo o alla pena, in assenza di un giudizio, occorre evitare il coinvolgimento di persone estranee ai fatti.
Vi è una sorta di parità tra i protagonisti della vicenda: tutti devono condividere gli aspetti significativi dei fatti. Il reo dovrà, pertanto, riconoscere la propria condotta per lo meno da un punto di vista sostanziale, fattuale, anche se non giuridico: in realtà, non sarebbe nemmeno corretto parlare d'ammissione, seppur sostanziale, di responsabilità, viste le implicazioni normative di tale concetto.
La versione univoca dei fatti principali, anche se non rigidamente intesa, è condizione per la fattibilità della mediazione e “in assenza di un tale accordo, per lo meno sui fatti principali, la possibilità di raggiungere una composizione della lite è limitata, se non nulla”, anche perché difficilmente il soggetto autore di reato che si proclama estraneo ai fatti accetterà di partecipare all’incontro.
Il confronto avviene nel rispetto dei principi del giusto processo: in particolare, il diritto alla difesa, qui inteso come diritto all’informazione e al parere legale sulle pratiche di mediazione, il diritto alla traduzione, la celerità dell’iter di mediazione e dell’eventuale procedimento giudiziario ad esso conseguente.
La presenza del procedimento penale a carico di una delle parti non condiziona formalmente la natura dell’incontro né il suo andamento intrinseco, comunque fondato sul reciproco riconoscimento, ma solo il suo assetto estrinseco, vale a dire che incide sulle modalità d'invio dei casi, coordinamento con i tempi del processo, comunicazione dell’esito. Semmai, è il procedimento penale a subire modificazioni a causa della mediazione e, del resto, non è certo trascurabile il fatto che vi sia una notizia di reato, l’esercizio dell’azione penale, la necessità per lo Stato di dare una risposta all’illecito.
Nei documenti del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite, traspare l’idea d'autonomia della mediazione dal sistema penale tradizionale, la sua natura di nuovo e diverso paradigma della giustizia.
Infatti, la presenza di questi nuovi modelli e programmi deve “fecondare” il diritto penale sostanziale e processuale, in un certo qual modo umanizzandolo.
Il primo minimo passo in avanti in tale direzione è costituito dalla rilevanza giuridica dei risultati della mediazione – riparazione.
Nei Paesi in cui vige il principio di discrezionalità dell’azione penale il programma di giustizia riparativa costituisce, di solito, una forma di diversion idonea a chiudere la pendenza penale.
Diversamente, nei paesi in cui vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale risulterà di primaria importanza sancire il dovere del giudice, ferma restando la sua discrezionalità tecnica, di tener conto del percorso di mediazione positivamente concluso, ai fini della scelta della misura da adottare.
I provvedimenti d'archiviazione, non luogo a procedere, o non doversi procedere, pronunciati in seguito ad una mediazione, dovrebbero avere “il medesimo statuto delle decisioni giudiziarie e vietare di procedere per i medesimi fatti”.
Rispetto, invece, alle mediazioni “non riuscite”, si prevede che i casi vengano celermente restituiti all’autorità giudiziaria inviante, la quale deve provvedere senza ritardo. Risulta, pertanto, implicito il principio secondo cui nessuna conseguenza sanzionatoria, o comunque negativa, debba discendere dall’esito negativo della mediazione o dall'impossibilità di trovare un accordo: diversamente, ne verrebbe pregiudicata la necessaria volontarietà.
Per questi motivi, le fonti internazionali raccomandano un controllo giudiziario sull’attività di mediazione, sia nel momento dell’invio del caso, sia nel momento della valutazione processuale del suo esito.
I documenti del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite sono atti giuridico – formali, seppur non vincolanti; essi, infatti, rappresentano lo stato dell’arte in tema di mediazione – riparazione e si pongono come fonti autorevoli grazie alla levatura degli esperti internazionali che li hanno elaborati e all’efficacia persuasiva di cui sono dotati gli organismi in seno ai quali sono stati prodotti.
Proprio sulla scia della Raccomandazione dell’O.N.U, in vari paesi europei si fa sentire l’esigenza di un coordinamento tra le varie forme di giustizia riparativa; se da un punto di vista quantitativo, infatti, sono ancora pochi i paesi interessati a queste pratiche, da un punto di vista qualitativo si è sviluppato un alto livello di sperimentazione.
E’ dal procedimento di comparazione con i vari paesi che attuano la mediazione che potranno essere individuate lacune e rischi insiti in tale strumento.
Del resto, è proprio in questa direzione che va muovendosi il Forum European Victim – Offender Mediation. Essa rappresenta, invece, un’organizzazione non governativa nata dall’esigenza di coordinare tra di loro le numerose forme ed esperienze di mediazione che, sviluppatesi negli ultimi anni nei vari paesi europei, hanno dato forma al modello di giustizia riparativa di cui esse costituiscono, come già anticipato, lo strumento per eccellenza. In pochi anni, infatti, il VOM9 ha stabilito molti contatti informali tra i paesi europei, dettati dall’esigenza di stabilire relazioni di scambio, di comunicazione, di verifica delle modalità con le quali la mediazione viene applicata.
Il presupposto di questo scambio d'informazioni s'individua nella diversità che caratterizza i sistemi giuridici dei Paesi che ricorrono alla mediazione; premesso, infatti, che le prime esperienze d'applicazione non hanno avuto il sostegno dell’ordinamento giuridico, strade diverse sono state, sin da subito, intraprese per iniziativa di ciascuno stato e, di qui si è sviluppata una differenza di tecniche e strumenti caratterizzati, però, da un minimo denominatore comune: il ricorso a strategie processuali e a “peripezie” tecniche per poter applicare la mediazione.
Il Foro nasce, per l’appunto, dall’esigenza di trovare un canale formale in grado di coordinare lo scambio d'informazioni e d'idee, in prospettiva della creazione di una futura struttura giuridica a carattere europeo.
Frutto dell’esigenza di allontanarsi da sistemi di giustizia troppo burocratizzati, della volontà di creare un decentramento giuridico con una minor ingerenza dello Stato nella regolamentazione dei conflitti solo recentemente è stato riconosciuto come istituzione organizzativa europea, incorporando le linee direttrici indicate dalla Raccomandazione del 2001 delle Nazioni Unite, la quale, oltre che costituire il formale riconoscimento della funzione della mediazione penale ed anche delle finalità perseguite dal Foro, individua un concreto canale giuridico in grado di accogliere tale nuove tecnica di azione penale.
L’art.4 della Costituzione del Foro, nella volontà di stabilire e sviluppare il sistema di giustizia riparativa si propone di:
- promuovere lo scambio internazionale di informazioni e di aiuto reciproco;
- promuovere lo sviluppo di servizi minorili, giuridico – assistenziali, di polizia, in grado di coordinare l’attività di VOM;
- esplorare e sviluppare le basi teoriche e legislative della giustizia riparativa;
- stimolare la ricerca di strumenti nuovi;
- assistere i vari paesi nello sviluppo dei principi dell’etica e dell’aggiornamento della pratica;
- individuare i canali legislativi in cui applicare la mediazione.
Ai fini stessi della realizzazione di tali obiettivi, il Foro ha stilato una lista di azioni mirate a:
– promuovere il dialogo tra avvocati, ricercatori, magistrati e giudici;
– sviluppare un’educazione giuridica più attenta ai problemi che coinvolgono la vittima, il reo e la comunità;
– costruire un saldo legame con gli organismi europei ai fini di una collaborazione istituzionale.
La mediazione, però, si precisa, non deve esser applicata come strategia alla quale ricorrere al fine di semplificare i tradizionali sistemi di giustizia, né come espediente comportante minori costi economici rispetto alla giustizia ordinaria.
Pur nel rispetto delle modalità di applicazione seguite dai singoli paesi, il Foro sottolinea la necessità di coordinare la mediazione, intesa come un sistema istituzionale, con il diritto ordinario: non si tratta solo di individuare la via giuridico - legislativa di ogni singola nazione, ma di dettare le coordinate alle quali far riferimento ai fini della creazione di un sistema di giustizia riparativa a carattere sovranazionale.
La Raccomandazione n°19 del Consiglio Europeo afferma la necessità di dar forma ad una legge che regoli l’istituto del Victim – Offender Mediation per facilitarne il ricorso in materia penale.
Secondo il Foro, attribuire carattere formale alla VOM è considerato obiettivo non solo necessario, ma anche indispensabile ai fini di una maggior chiarezza e semplicità applicativa.
A supporto di tale considerazione, si sostiene che la regolamentazione tramite legge offre garanzie superiori per un più facile e vantaggioso ricorso allo schema della mediazione; infatti, dove esiste un obbligo di fonte legislativa sarà meno probabile che le opportunità offerte dalla VOM rimangano inapplicate.
Una regolamentazione legislativa è in grado di garantire maggior certezza, uguaglianza legale, è capace di predisporre le conseguenze che seguiranno una volta fatto ricorso a tale strumento.
Sono, comunque, tre le forme di VOM riconosciute come le più percorribili ed efficaci.
Una prima forma di VOM, la più usata negli ordinamenti europei, è quella che si colloca come parte dell’ordinaria procedura giudiziaria, applicabile su richiesta in ogni momento del processo quando il caso venga inviato al mediatore per cercare, in merito all’oggetto del conflitto, un punto d’incontro. Nel caso in cui le parti giungano ad un accordo, questo andrà ad incidere in modo positivo sul processo, diversamente le parti dovranno attendere la sentenza finale.
Una seconda forma di VOM si colloca come alternativa al processo ordinario, è la c.d. diversion, usata per lo più per reati rispetto ai quali il procedimento per via ordinaria è appena iniziato e, ove se ne ravvisino i presupposti per l’applicazione, la mediazione va a sostituirla.
Un ultimo esempio di mediazione si colloca, invece, come complementare al processo ordinario, utilizzata per reati più gravi, ed attivata dopo l’avvenuto inizio del processo o in fase di esecuzione della pena.
Nella loro diversità, tali modelli vedono, in ogni caso, garantita l’autonomia del rapporto tra mediazione e salvaguardia del processo.
Le prassi mediatorie variano da ordinamento ad ordinamento per quanto riguarda le modalità di conduzione, di coinvolgimento di soggetti diversi dalla vittima e dall’autore di reato. Tuttavia, è possibile risalire ad un modello generale così articolato:
– presa in carico del caso: è la fase in cui si decide, dopo la raccolta di sommarie informazioni circa la dinamica del conflitto e del contesto in cui si è sviluppato, se il conflitto è suscettibile di mediazione;
– preparazione della mediazione: avviene attraverso colloqui separati con le parti alle quali il mediatore spiega il significato e le conseguenze giuridiche della mediazione;
– conduzione della mediazione: è la fase più difficile e delicata che può svolgersi anche attraverso più incontri del mediatore con entrambe le parti, e che si conclude, in caso di esito positivo, con un accordo siglato da tutte le parti circa i contenuti della riparazione;
– follow up: è forse la meno visibile, perché interna all’Ufficio di Mediazione, in cui vengono effettuate la valutazione della conformità della condotta riparativa rispetto all’accordo di riparazione siglato dalle parti e la verifica, attraverso interviste e schede valutative, del livello di soddisfazione delle parti.
Il presupposto per proporre la mediazione è che il reo abbia ammesso formalmente di aver commesso il reato, o che la sua responsabilità sia fuori discussione: si procede, pertanto, di solito, prima all’interrogatorio da parte del pubblico ministero. A conclusione dell’interrogatorio si valuta la disponibilità del minore all’incontro con la vittima e, se del caso, si prende atto del consenso suo, dei suoi genitori e del difensore. In situazioni incerte, per quanto riguarda la fattibilità dell’intervento o dell’esistenza del consenso, colui che ha interrogato il giovane si limita ad indicare la possibilità che la sua vicenda venga segnalata all’ufficio per la mediazione; seguirà poi una lettera con firma del pubblico ministero indirizzata all’indagato e ai suoi genitori, al difensore e alla persona offesa, con la quale s'informa dell’avvenuta segnalazione all’ufficio per la mediazione, spiegando sommariamente lo scopo dell’incontro tra autore di reato e vittima.
Contemporaneamente, viene formulata la richiesta di mediazione all’ufficio incaricato, con una lettera contenente una succinta esposizione del fatto e della posizione assunta dall’indagato, dei dati occorrenti affinché l’incaricato possa mettersi in contatto con gli interessati.
E’ solo nei casi più complessi, che il mediatore chiede di prendere visione del fascicolo del pubblico ministero al fine di acquisire una conoscenza più completa della vicenda: solitamente i mediatori procedono sulla base di quelle poche notizie già acquisite, ritenendo ininfluente la conoscenza della verità processuale.
La mediazione, comunque, è prospettata anche per quei casi in cui non vi è stata piena confessione: sarà sufficiente l’ammissione del fatto, prescindendo dalle giustificazioni difensive, ritenendo la mediazione la sede più opportuna in cui i protagonisti della contesa possano chiarire le rispettive ragioni.
La segnalazione da parte del pubblico ministero non obbliga l’ufficio per la mediazione a procedere, comunque, essendo lasciata alla valutazione discrezionale degli esperti la fattibilità dell’intervento di mediazione. Il mediatore, quindi, contatta prima la vittima e ne verifica la disponibilità, poi il minore reo. Riceve le parti prima separatamente e poi insieme e, solo a conclusione dell’attività mediativa, riferisce al magistrato sull’esito positivo o negativo della mediazione.
In caso di esito positivo vengono specificati i comportamenti concreti che permettono la riuscita della mediazione; in caso di esito negativo, si dichiara fallita la mediazione senza specificarne le ragioni, salvo il fallimento sia dipeso dall’assoluta indisponibilità della vittima all’incontro.
L’ufficio per la mediazione, dunque, non invia al pubblico ministero, o al giudice che ha segnalato il caso, una relazione sulla personalità del minore; si limita a riferire l’esito positivo o negativo dell’incontro tra le parti interessate. Nel primo caso aggiungendo solamente con quali modalità si è realizzata o conclusa la mediazione: con le scuse e la piena riconciliazione o, se del caso, con il riconoscimento del danno o con un accordo al riguardo, o con la pace fatta tra i due.
Siffatte considerazioni portano ad una classificazione della mediazione come nuova forma d’azione, un’alternativa alla giustizia, una nuova tecnica di gestione dei conflitti che si richiama ad un modello di giustizia consensuale,
La mediazione penale appare come strumento giuridico - educativo nel quale il Tribunale risulta parte attiva di un contesto di ricomposizione sociale in senso lato, senza per questo rinunciare alla propria attività giurisdizionale.
Il contesto penale non è negato, né la mediazione è un’alternativa all’azione penale.
La mediazione deve esser vista e considerata come modalità di responsabilizzazione, capace di fornire al minore la possibilità di rielaborare l’esperienza concreta del reato, e ragionare sulle sue conseguenze: le sanzioni penali per i minorenni non sono la soluzione al problema della criminalità giovanile.
Alle origini della mediazione si pone un percorso culturale, prima ancora che giuridico, complesso e caratterizzato da inputs che provengono da mondi e civiltà giuridiche differenti, alle quali si aggiungono differenti modelli e strumenti di giustizia riparativa, rispondenti alle singole realtà giuridiche.
Da questi input emerge l’immagine della mediazione come modello di intervento allo stesso tempo parallelo e alternativo al processo: “parallelo” perché coesiste con il rito formale al quale le parti possono accedere, prima o dopo aver esperito il tentativo di mediazione, “alternativo” perché risponde ad una logica diversa da quella sottesa al modello processuale.
Del resto, da sempre il processo è rito, è spettacolarità dell’amministrazione della giustizia, è momento di conferma della validità delle norme; potrebbe esser paragonato ad un gioco in cui c’è sempre una parte che vince ed una che perde. Al contrario, la mediazione rifugge dalla ritualità simbolica del processo è10 piuttosto un rito “catartico” in cui viene restituito alle parti il conflitto sottratto loro dallo Stato e, nella logica del risultato, almeno quando ha successo, corrisponde ad un “gioco” in cui nessuno perde ma, anzi, ciascuno vince qualcosa, anche se attraverso reciproche concessioni11 Input alla mediazione deriva dalla fine dell’epoca caratterizzata dalla pena detentiva, e dall’emergere di prospettive in cui il diritto penale resterebbe irrinunciabile solo per un nucleo di reati, oggettivamente gravi, così ristretto da non essere ulteriormente comprimibile, mentre ai confini esterni del diritto penale si dovrebbe ravvisare una “zona basata su meccanismi di soluzione comunicativa e non meramente repressiva12”.
Ci chiediamo allora quale collocazione funzionale e strutturale all’interno dell’ordinamento possa rivestire avere la mediazione.
Talvolta si propone una collocazione “eco-sistemica” della mediazione in cui quest’ultima appare come un’alternativa in chiave di depenalizzazione, riferendoci, per lo più, a “quegli interventi deflattivi legali che una volta predisposti dal legislatore, richiedono l’intervento dell’operatore giuridico penale sia esso un giudice, un P.M. o la stessa vittima del reato”. Altrove13, invece, la mediazione, in una collocazione “endo sistematica”, si pone come variante di stabilizzazione del sistema penale.
Pur vero è che considerare la mediazione come un’alternativa, farebbe della stessa uno strumento per promuovere una razionalizzazione interna del diritto penale nella direzione di una progressiva marginalizzazione della risposta penalistica. Il diritto penale dovrebbe, così, costituire l’extrema ratio di tutela e, pertanto, la sanzione verrebbe ad essere utilizzata solo qualora non vi siano, o comunque, siano inefficaci gli altri mezzi di tutela predisposti dall’ordinamento giuridico e le condotte, non più avvertite dalla comunità come cariche di disvalore, potrebbero esser espunte dal sistema penale o gestite con gli strumenti della giustizia riparativa.
La mediazione potrebbe trovare una collocazione all’interno della privatizzazione del conflitto, poiché restituisce al potere dispositivo delle parti la perseguibilità delle violazioni di minor allarme.
Ecco perché la mediazione non può esprime soluzioni a senso unico, né ha effetti stigmatizzanti, ciò non toglie, però, che possa anch’essa agire come un fattore di stabilizzazione sociale.
Essa, infatti, è in grado di promuovere nel reo il riconoscimento della propria responsabilità, essendo quest’ultima una condizione indispensabile per avviare un processo di rieducazione e di reintegrazione del soggetto. Però, è anche vero che la mediazione potrebbe raggiungere una più efficace legittimazione ove le si riconosca una funzione preventiva, potendo avere mediazione e riparazione sia un effetto di conferma della validità dell’ordinamento, sia un effetto di pacificazione e, allora, ci si dovrebbe a questo punto interrogare sul come convincere la collettività di un siffatto uso della mediazione.
La giustizia minorile, ancora una volta, si mostra come luogo più opportuno ove far germogliare e crescere la mediazione come vero e proprio strumento di azione.
La giustizia minorile è stata, da sempre, caratterizzata dall’ambivalenza del contemporaneo perseguimento di due obiettivi: quello della pena in senso stretto (come protezione della società dai minori devianti), e quello socio – assistenziale di proteggere i minori da una risposta giudiziaria che, in situazioni di particolare instabilità si traducevano in vera violenza nei loro confronti.
Dall’altro lato, però, preoccuparsi del minore, preservarne il più possibile il diritto all’educazione, recuperarlo al rispetto della legalità non significa abbandonare la sanzione penale ma, più correttamente, ricercare un sistema sanzionatorio funzionale a tale scopo, valorizzando gli strumenti già introdotti e sviluppandone le potenzialità, nel senso di una giustizia penale che persegua finalità riparative e responsabilizzanti in grado di garantire un risarcimento sia alla vittima che alla collettività per il fatto commesso.
Il perseguimento di un tale obiettivo è possibile all’interno di un ordinamento più flessibile, che consenta una risposta adeguata alle varie forme di criminalità minorile, anche a quelle più recenti e di maggior gravità.
Esistono, a tal proposito, diverse prospettive di lettura che, se da un lato, tendono a considerare la mediazione come un’esperienza esterna al diritto penale in quanto tale, dall’altra, invece, sono orientate a recuperarla come sua parte integrante, come sua articolazione.
Riconoscere alla mediazione la potenziale capacità di contestazione dei principi del diritto penale tradizionale, oltre che il significato di radicale elemento di diversità rispetto al sistema processuale di risoluzione giudiziaria, fa emergere, a ben guardare, l’idea dell’inconciliabilità, dell’esclusione reciproca fra processo penale e mediazione.
Nel nostro ordinamento processuale, però, stante, il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, parlare di una vera alternatività non è di certo prospettabile, anche perché presupporrebbe una totale impermeabilità, a monte, fra operatori della mediazione e sistema della giustizia penale che sbarri il “travaso” di qualsiasi notizia criminis acquisibile in sede di mediazione verso il pubblico ministero, altrimenti vincolato ad esercitare l’azione penale.
Per evitare che scatti il meccanismo dell’obbligo di denuncia dei reati, stabilito per qualsiasi pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio e penalmente sanzionato, si dovrebbe presupporre l’esclusione di tutti gli operatori pubblici dalla pratica della mediazione, o la sistematica illegalità del loro comportamento.
Più realistico sembra, invece, il tentativo di sfruttare le opportunità offerte dal nuovo ordinamento processuale minorile, che consentono di attuare l’effetto concreto del principio d'obbligatorietà dell’azione penale, trasformandolo da rigido automatismo in semplice criterio guida, suscettibile di una più razionale differenziazione nell’effettivo perseguimento dei reati.
Pertanto, l’applicazione di taluni istituti nuovi del processo penale minorile, quali l’osservazione della personalità e della sua evoluzione (art.9d.P.R.448/88), il proscioglimento per irrilevanza del fatto (art.27d.P.R.448/88), la sospensione del procedimento con le prescrizioni per la riconciliazione con la vittima (art.28d.P.R.448/88), offrono, sia pur limitati, spazi di elasticità nelle determinazioni del pubblico ministero e del giudice, circa l’effettivo esercizio o proseguimento in concreto dell’azione penale, che già de jure condito consentono una parziale e circoscritta possibilità di ricorrere alla mediazione tra autore e vittima.
La mediazione penale non si colloca in alcun ramo del diritto penale tradizionale, ma rappresenta lo strumento privilegiato d’azione di una giustizia alternativa, della giustizia riparativa. Si tratta di un modello d'intervento, sui conflitti originati da un reato, che si avvale non della pena, bensì di strumenti che tendono a promuovere la riparazione del danno cagionato dal fatto delittuoso e la riconciliazione tra vittima e autore.
La giustizia riparativa può esser definita come un paradigma di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni rispetto agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, allo scopo di promuovere la riparazione del danno e la riconciliazione.
La sfida che la giustizia riparativa lancia, alle soglie del ventunesimo secolo, è quella della ricerca del superamento della logica del castigo partendo, invece, da una “lettura relazionale” del fenomeno criminoso inteso come conflitto generante la rottura delle aspettative sociali. Il reato non dovrebbe più esser considerato soltanto come un illecito commesso contro la società, bensì come condotta intrinsecamente dannosa e offensiva, capace di provocare sofferenze e dolore, a tal punto da portare il reo a richiedere l’attivazione di forme di riparazione del danno provocato.
Le questioni fondamentali14 non sono più “chi e con quali sanzioni merita di esser punito”, bensì “cosa può esser fatto per riparare il danno”, laddove riparare non significa semplicemente controbilanciare in termini economici il danno cagionato15; ha, infatti, uno spessore più profondo, in quanto la riparazione è preceduta per lo più da un percorso di mediazione/riconciliazione che implica il riconoscimento da parte del reo della propria responsabilità e delle dimensioni del danno causato.
La riuscita della mediazione richiede l’assoluta garanzia dell’informalità e della segretezza su quanto gli interessati esprimono. Correlativamente, le modalità d'acquisizione della prova ai fini del processo penale sono quelle stabilite dal codice, sicché l’unico strumento utile ad evitare che la mediazione incida sul diritto di difesa dell’indagato o imputato, è quello della segretezza in merito a quanto accade durante la mediazione. Pertanto, appare ancor più chiaro che la mediazione è un percorso parallelo e non finalizzato al processo (salvo il caso di cui all’art.28 quando la mediazione costituisce uno dei contenuti, o il contenuto, prescrittivo della messa alla prova), bensì alla responsabilizzazione e alla presa di coscienza da parte dell’autore del reato di quanto commesso.
Benché non finalizzata al processo, come precedentemente indicato, l’intervento di mediazione è utile al processo per quel poco o tanto che la risposta del ragazzo alla proposta di mediazione possa rivelare della personalità: ad esempio, nei reati perseguibili a querela, l’esito positivo della mediazione può determinare la remissione della querela; rispetto ai reati di maggior gravità, invece, una mediazione riuscita non impedirà il rinvio a giudizio dell’indagato, ma potrà consentire l’applicazione del perdono giudiziale, anziché sulla base della concessione del beneficio, accompagnata dalla mera fiducia che il ragazzo non commetterà altri reati; o ancora, l’esito della mediazione potrà costituire uno degli indicatori utili circa la possibilità che una “messa alla prova” abbia esito positivo.
Sempre più spesso, l’indicazione dell’opportunità di attivare il percorso mediativo, viene dagli operatori della giustizia minorile e dai difensori. Beninteso, l’invio è sempre effettuato dai magistrati, tuttavia l’impulso iniziale proviene da questi soggetti e, a tal sollecitazione, il magistrato in funzione di pubblico ministero, giudice delle indagini preliminari, dell’udienza preliminare o dell’udienza dibattimentale vi aderisce.
La fase dell’acquisizione del consenso alla mediazione costituisce un momento fondamentale rispetto a tutto il processo mediativo, dove per consenso ci si riferisce ad un sentire con, un sentire insieme, un riconoscere l’altro nella sua umanità. Questo riconoscimento ha inizio quando l’operatore incontra l’uno o l’altro dei confliggenti e, ascoltando la storia di ciascuno, conquista la sua posizione imparziale che gli consente di procedere verso il percorso mediativo. Il consenso è parte integrante del processo di mediazione e ne condivide le proprietà caratterizzanti: l’accoglienza, l’imparzialità, l’avalutatività.
I confliggenti vengono poi ascoltati singolarmente e/o congiuntamente, per verificare che non ci siano motivi ostativi all’attivazione del percorso mediativo.
Dato, apparentemente di natura contraddittoria è la mancanza di un vero riferimento esplicito alla mediazione, nonostante l’ambito, pressoché esclusivo di sperimentazione e d'operatività della mediazione, sia proprio quello della giustizia minorile.
In attesa di una specifica disciplina normativa della mediazione e al fine di ottimizzare le esigenze educative del minore, si dovranno utilizzare quei modelli normativi esistenti del diritto minorile che, pur non essendo nati come spazi finalizzati alla mediazione, creano il luogo di operatività: questa collocazione deve individuarsi nel d.P.R.448/88.
Un’indicazione importante la si può individuare nei termini di “conciliazione” e “riparazione” contenuti in 2°com. di art.28 e richiamati dall’art2716 delle disposizioni di attuazione, nelle quali la “riparazione delle conseguenze del reato” e la “conciliazione con la persona offesa” costituiscono l’esito auspicabile della mediazione.
I canali d'attivazione della mediazione nel sistema penale minorile permettono al giudice di avere una base “allargata” del giudizio, sulla quale fondare il ricorso alle formule di “proscioglimento per irrilevanza del fatto”, o di “estinzione del processo” per superamento della prova.
La mediazione autore vittima si immette nella dinamica processuale penale in:
- funzione pre-processuale,
- vera e propria fase processuale o direttamente ad essa connessa,
- in fase post-processuale o di rilascio.
Infatti, parliamo di una mediazione pre-processuale, inserita nella fase delle indagini preliminari, una sorta di diversion, il cui presupposto è nell’art.917 d.P.R.448/88 che consente al pubblico ministero di rivolgersi agli operatori dell’ufficio per la mediazione al fine di acquisire conoscenze sul minore indagato, e per valutare, oltre alla rilevanza sociale del fatto, la possibilità che il minore si attivi per riparare le conseguenza del reato. La conoscenza dell’imputato non è orientata al solo giudizio di colpevolezza, al contrario, fa da supporto ad una serie di scelte che vanno dalla decisione in merito alla rilevanza sociale del fatto(ex art27 d.P.R.448/88) alla definizione delle prescrizioni per la sospensione del processo con messa alla prova (ex art28 d.P.R.448/88), alla scelta di sanzioni sostitutive alla condanna.
L’art.9 d.P.R.448/88 impone di effettuare accertamenti sulla personalità del minore, acquisendo elementi circa le sue condizioni, al fine di determinare l’imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto, disporre le adeguate misure penali. Il secondo comma della stessa norma prevede, inoltre, la possibilità di assumere informazioni da persone che abbiano avuto rapporti con il minore e sentire il parere d'esperti, senza osservare alcuna formalità. Nulla vieta che tra tali esperti posa esservi anche il mediatore.
Il momento in cui trova più immediata ed efficace applicazione è quello delle indagini preliminari perché, essendo la personalità del minore un’entità in continua evoluzione, per valutare l’imputabilità del ragazzo e il suo grado di responsabilità ai fini della qualificazione della pena, si deve intervenire dopo il fatto, non appena pervenga all’autorità giudiziaria la notitia criminis.
L’immediatezza dell’intervento darebbe, anche alla vittima del reato, la sensazione di una rapida reazione dello stato al fatto criminoso e, coinvolgendola direttamente nella mediazione, potrebbe forse attenuare quel senso di frustrazione che caratterizza il dopo reato; inoltre, consentirebbe all’autorità giudiziaria di avvalersi di un più ampio ventaglio di strumenti, rispetto a quelli forniti dall’ordinamento.
Nella fase delle indagini preliminari, pertanto, l’iniziativa dell’invio al mediatore spetta principalmente al pubblico ministero, il giudice delle indagini preliminari potrebbe invece ricorrervi nel momento in cui egli si trovi a dover decidere su una misura cautelare. Sia in un caso che nell’altro, l’invio al mediatore potrebbe realizzarsi nell’ambito dell’applicazione del secondo comma dell’art.9, che consente all’autorità giudiziaria di assumere informazioni da persone che abbiano avuto rapporti con il minore, di sentire il parere di esperti.
D’altra parte, è proprio quella delle indagini preliminari la fase in cui maggiormente può sentirsi il contrasto tra il principio di presunzione di colpevolezza dell’indagato, ed il fatto che il ricorso alla mediazione presupponga un’ammissione di responsabilità da parte del minore indagato, con il rischio che, qualora la mediazione non dia risultati positivi, il consenso dato potrebbe esser valutato negativamente con conseguente pregiudizio per il diritto alla difesa del minore.
Se, invece, consideriamo l’efficacia da attribuire alla mediazione in questa fase, sia nell’ipotesi che essa abbia un risultato positivo, sia che abbia esito negativo, dovremo pensare che, comunque, in difetto di un'esplicita previsione legislativa che preveda, per esempio, l’estinzione del reato nel caso di avvenuta conciliazione delle parti e in corrispondenza all’applicazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, il pubblico ministero non potrà comunque esimersi dal procedere penalmente nei confronti del minore, neppure qualora dalle indagini preliminari emergessero fondati elementi di responsabilità a suo carico.
Al fine di acquisire elementi di valutazione sulla personalità del minore, l’autorità giudiziaria può utilizzare tutti gli strumenti d'accertamento a sua disposizione, sia i mezzi di prova disciplinati nel libro III del codice di rito, sia quelle prove atipiche che appaiono utili ed ammissibili.
La norma riconosce al pubblico ministero e al giudice la possibilità di procedere all’assunzione d'informazioni e all’audizione di esperti senza alcuna formalità, per poter ricostruire il carattere e la personalità del ragazzo, ricorrendo anche a mezzi d'accertamento indiretti, tra i quali possiamo, a ragione, inserire la figura del mediatore, in qualità di soggetto cooperante con i servizi minorili che, seppur non esplicitamente contemplati, costituiscono il canale tecnico principale e privilegiato, anche se non esclusivo. In tal modo si spiega e si giustifica anche la prassi, invalsa presso le procure dei tribunali minorili, in virtù della quale, non appena perviene la notitia criminis, il magistrato requirente invia ai servizi apposita richiesta d'informazioni sul minore indagato.
Sarà, poi, competenza dell’autorità giudiziaria porre in relazione gli elementi di fatto raccolti con le scelte processuali che si possono compiere, senza peraltro escludere la possibilità che i servizi di mediazione siano abilitati a proporre loro stessi l’adozione di quei provvedimenti che appaiano opportuni. Consentire al pubblico ministero di rivolgersi agli operatori dell’Ufficio per la Mediazione per valutare l’opportunità che il minore si attivi per riparare alle conseguenze del reato, costituisce un elemento che, insieme all’eventuale riparazione del danno e alla verifica della disponibilità del minore ad incontrarsi con la vittima e a riconsiderare la propria condotta delittuosa -con l’ausilio degli operatori sociali e dietro impulso del pubblico ministero- diventano per il giudice utili strumenti ai fini della valutazione della colpevolezza del minore e della formulazione di un giudizio prognostico.
La mediazione, però, non ha come precipuo scopo il rivelare la personalità dell’imputato; infatti, quanto previsto dall’art.9 del d.P.R.448/8818 può costituire un punto d'osservazione, rimanendo, comunque, essenziale per la mediazione ricucire lo strappo sociale, senza processo, e non il fornire dati d'osservazione sulla personalità del minore.
Gli elementi di valutazione acquisiti tramite l’art.9d.P.R. 448/8818 possono costituire i parametri in base ai quali considerare se per il reato commesso possa esser applicato l’art.27, norma che consente al giudice di prosciogliere il minore per irrilevanza del fatto. In realtà, mediazione e risarcimento -costituendo ulteriori elementi valutativi della tenuità del fatto- consentirebbero d'allargare le maglie dell’art.27, la cui applicazione resterebbe altrimenti canalizzata nel solo parametro della gravità oggettiva dell’illecito.
Normalmente, il complesso di valutazioni che sfociano nella sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, viene compiuto dal giudice in base a dati scarni: la descrizione del fatto che deriva dai resoconti della polizia giudiziaria, ed i risultati delle relazioni dei servizi minorili che si limitano a “fotografare”, dal di fuori, la condizione familiare e sociale del minore al momento della commissione del reato. E’ in questa prospettiva che la mediazione potrebbe segnare un significativo cambiamento: la stessa riparazione, se avvenuta prima dell’inizio del dibattimento, riduce la dimensione del danno e fa venir meno uno dei requisiti “ostativi” alla valutazione di tenuità del fatto. “Irrilevanza”20 è un termine che sintetizza le tre condizioni che stanno alla base di questa formula di proscioglimento: tenuità del fatto, occasionalità del comportamento e pregiudizio per le esigenze educative del minore.
La finalità di quest'istituto vuole, da un lato decongestionare il sistema processuale minorile, dall’altro applicare il principio della minima offensività del processo, da condursi e concludersi solo quando vi sia interesse a farlo. L’esigenza sottesa è quella di stabilire un raccordo tra processo ed esigenze educative del minore.
La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto realizza una rapida fuoriuscita del minore dal circuito penale. Infatti, non solo interviene sin dalla fase delle indagini preliminari, ma è strutturata in modo da non “lasciar tracce”.
Dichiarare l’irrilevanza del fatto comporta l’esercizio dell’azione penale: il giudice dovrà, dal canto suo, accertare che n'esistano i presupposti. Se manca una condizione di procedibilità, se il reato è estinto o non è previsto dalla legge come reato, o se la notizia di reato risulta infondata, allora non v’è spazio per una sentenza ex art.27disp.proc.pen.min, ma solo per un decreto d'archiviazione.
Il requisito della tenuità del fatto permette di considerare come ammissibile il ricorso alla mediazione perché, alla base di una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, vi è l’idea che l’esecuzione della pena nei confronti di un soggetto autore di un reato di poca rilevanza, sia troppo eccessiva, sproporzionata ed irragionevole.
Pur evitando al reo ogni conseguenza giuridica, una componente sanzionatoria nell’art.27 potrebbe esser recuperata subordinando l’operatività dell’istituto ad una forma di risarcimento nei confronti della vittima: in questo modo la riparazione del danno potrebbe esser prevista come presupposto per l’applicazione della causa di non punibilità, rispetto alla quale la mediazione consentirebbe l’individuazione di quegli elementi ulteriori e necessari per procedere al risarcimento.
L’opportunità di punire il minore, le stesse esigenze educative, poste in pericolo dall’ulteriore proseguimento del procedimento, risultano preponderanti rispetto all’applicazione della pena finendo, così, per costituire l’imput ai fini dell’ammissibilità della mediazione.
Facendo un discorso più generale, nella norma considerata è presente la volontà di non escludere la punibilità dei fatti in concreto lievi, ma soltanto la punibilità di fatti rispetto ai quali il procedimento penale potrebbe comportare pregiudizio alle esigenze educative. E’ anche vero, però, che valutare il pregiudizio è cosa alquanto difficile; si dovrà tener conto della maturità psichica del minore, del suo comportamento sia durante le fasi del procedimento, sia durante il confronto tra vittima e reo che caratterizza la mediazione.
Non si tratta solo di dichiarare l’irrilevanza di fatti che hanno sin dall’origine carattere bagatellare, ma di riconoscere anche la sopravvenuta irrilevanza di quegli elementi che avevano una certa consistenza, venuta poi meno a seguito della riconciliazione extra giudiziale tra la vittima e l’autore del reato.
In quest’ambito, nulla impedisce di pronunciare la riconciliazione tra le parti, direttamente o attraverso l’intervento di persone che abbiano una specifica esperienza di mediazione, per verificare l’effettiva irreversibilità del conflitto. Per questo, il proscioglimento per irrilevanza del fatto previsto nel processo minorile costituisce l’interfaccia tra sistema penale e mediazione.
Quando, invece, il processo è già avviato, il giudice può utilizzare la mediazione come prescrizione “a corredo” della sospensione del processo con messa alla prova, disposta dopo l’audizione delle parti. L’esito positivo della prova, che il giudice valuterà sulla base del “comportamento del minore e della sua personalità”, ha come conseguenza la dichiarazione di estinzione del reato.
Questo è l’istituto del processo penale minorile che più di altri offre lo spazio per l’attuazione di un’ipotesi di mediazione.
Infatti, con l’art.28 d.P.R.448/8821si riconoscere al giudice la facoltà di sospendere il processo e di affidare per un periodo di tempo il minore ai servizi dell’amministrazione della giustizia, per consentire l’attuazione di un programma d'osservazione, trattamento e sostegno, al termine del quale si procede ad una nuova valutazione della personalità del ragazzo che, se di esito positivo, ha come conseguenza la dichiarazione di estinzione del reato ai sensi dell’art.29.
L’art.2822 prevede esplicitamente che il giudice, con il provvedimento con il quale affida il minore ai servizi sociali, possa anche impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minore con la persona offesa.
La prassi, però, come già precedentemente indicato, ha dimostrato che il ricorso all’art.28, come luogo privilegiato ai fini dell’applicazione della mediazione, è risultato poco soddisfacente, fors’anche per la sua collocazione strettamente endoprocessuale.
Il presupposto per poter avviare un tentativo di conciliazione, o un’attività di riparazione, si individua nel consenso del minore e della persona offesa.
In realtà, in qualunque fase del procedimento si voglia proporre l’invio al mediatore, è indispensabile che il consenso prestato dai soggetti sia “genuino”: il giudice e i servizi possono proporre la mediazione, ma non forzare verso di essa; d’altra parte, quando la mediazione viene proposta dal pubblico ministero o dal giudice, cioè dal soggetto al quale la legge attribuisce il potere di promuovere l’azione penale o decidere sulla responsabilità penale, vi è il rischio di un condizionamento.
E’ facile prevedere che il minore indagato dia il consenso alla mediazione, anche solo nella speranza di alleggerire la sua posizione sotto il profilo penale o, comunque, di ottenere qualche beneficio.
Lo Stato, ricorrendo all’istituto della mediazione, potrebbe dar forma alle esigenze rieducative del minore, senza lasciare privo di risposta un comportamento che, per quanto tenue, nasconde una componente d'antigiuridicità.
Con la “sospensione del processo e messa alla prova”, il legislatore ha per la prima volta valorizzato il ruolo che la riconciliazione con la vittima assume nel processo di responsabilizzazione dell’imputato innestando nel nostro ordinamento uno strumento già da tempo utilizzato all’estero, quale appunto la mediazione.
La responsabilità si prospetta, sia quale condizione di partenza, sia fine specifico dell’intervento di giustizia che si porrà come un’occasione per l’imputato di avviare “percorsi di responsabilizzazione” all’interno di un contenitore giuridicamente controllato e garantito.
L’assunzione di responsabilità in relazione al fatto commesso si realizza fuori del processo, a fini educativi e tale da evitare che possa assumere valenze autoincriminatorie ecco perché è possibile sostenere l’esclusione della confessione dai presupposti della messa alla prova e la sua applicazione come condizione fondamentale ai fini del ricorso alla mediazione.
La confessione, infatti, si conferma come l'elemento indissolubile della mediazione, ma non della messa alla prova.
L’attività riparativa e conciliativa è compito affidato ai servizi dell’amministrazione della giustizia e non al giudice, in un “contenitore” esterno, e non estraneo, al processo, ad esso collegato da un continuo dialogo costruttivo che si realizza proprio per il tramite della mediazione.
Se, infatti, la mediazione può esser ricondotta alle prescrizioni imposte dal giudice nell’ambito di un progetto di messa alla prova, qualora il giudice decreti la sospensione del processo, è anche vero che la mediazione si va ad identificare come percorso parallelo a quello processuale, non sostitutivo alla giurisdizione, bensì risorsa sfruttabile all’interno del processo.
Il ricorso alla mediazione necessita, in qualunque fase del processo avvenga, del previo consenso dell’imputato, della volontà da lui stesso manifestata, anche sotto la spinta degli organi di giustizia, di operare in tal senso, ma questa deve esser vista come conditio sine qua non per la mediazione, non per la messa alla prova. Quest’ultima potrebbe, allora, esser considerata come approdo una volta attivato il percorso mediativo, ma è anche vero che il ricorso alla mediazione non è condizione essenziale ai fini dell’applicazione della messa alla prova, può diventarlo là dove le si riconosca tale potenzialità.
D’altra parte, anche le pronunce della Corte Costituzionale sembrano dirette in tal senso.
In una sentenza del 1995, la Corte Costituzionale ha affermato l’indisponibilità per il minore della scelta sull’applicabilità della prova, negando l’eventuale condizionamento della messa alla prova alla prestazione di un previo consenso da parte dell’imputato ed affermando, nel contempo, l’illogicità del meccanismo preclusivo dell’art.28d.P.R. 448/88, il quale sgancia la messa alla prova da un previo consenso dell’imputato. In sostanza, la Corte ha negato che la messa alla prova possa essere condizionata dalla strategia processuale del minore.
Infatti, nel processo minorile va esclusa la rilevanza delle scelte del minore sul merito del processo o sulla misura della pena, così come le sue scelte sulla confessione non possono condizionare l’applicabilità della sospensione del processo e messa alla prova.
Se, dunque, è da escludersi la rilevanza delle scelte del minore sul merito del processo, è anche vero, però, che gli accordi intervenuti tra le parti acquisteranno rilevanza là dove sia lo stesso giudice ad attribuirla: l’accordo raggiunto con la mediazione sarà valutato e considerato vincolante dal giudice nell’ambito della discrezionalità a lui riconosciuta dall’ordinamento.
Si tratta, pertanto, di scindere la rilevanza che la confessione assume per la mediazione, nella quale è condizione indispensabile, dalla rilevanza che potrebbe assumere nella messa alla prova senza, però, considerarla come indispensabile.
D’altra parte, pensare alla confessione come presupposto tacito della messa alla prova, oltre che esser privo di un qualunque riferimento normativo, andrebbe a contrastare con inderogabili principi costituzionali.
Innanzitutto comporterebbe la violazione del diritto di difesa, sancito dall’art.24Cost.: ne deriverebbe, infatti, l’impossibilità di applicare tale misura all’imputato che abbia scelto di esercitare il diritto al silenzio, qualificabile come corollario del diritto di difesa. la mediazione si configura come un efficace strumento per riparare il danno e promuovere la conciliazione con la vittima, non solo nella fase che precede la sospensione del processo con messa alla prova e, quindi, come prescrizione dettata dal giudice ai fini della concessione di tale istituto, ma anche in qualità di strumento attraverso il quale accertare l’esito positivo o negativo della prova concessa. Sotto quest’ultimo aspetto, la mediazione è il risultato di un iter condotto dal minore di cui il giudice può, a propria discrezione, servirsi.
Sono, infatti, previste nell’ordinamento minorile altre misure sospensive, prive di quei contenuti fortemente afflittivi e limitativi della libertà personale che caratterizzano la messa alla prova e, neppure subordinate alla confessione del minore. Una tale difformità di disciplina non si giustifica nemmeno in base alla valutazione dei fini educativi che l’istituto si prefigge: si tratta, infatti, come ho già rilevato, di una misura diretta alla rieducazione del minore autore di reati.
Questo percorso rieducativo deve, però, esser raggiunto all’esito della prova: anticipare con la confessione questa tappa prima della sospensione non corrisponde a quanto previsto da tale disciplina.
Del resto, l’eventuale anticipazione della pretesa rieducativa potrebbe esser, invece, realizzata facendo ricorso alla mediazione, come ambito in cui il minore può esser responsabilizzato e recuperato al rispetto della legalità.
La disponibilità del minore ad assumersi la responsabilità del fatto commesso costituisce un fattore importante all’interno della prova, però, non può certo esser strumentalizzata come presupposto applicativo di questa misura.
Sebbene parte della dottrina e della giurisprudenza, così facendo, hanno voluto circoscrivere l’operatività della messa alla prova ai casi in cui sia più probabile l’esito positivo della prova attraverso l’introduzione di presupposti oggettivi che riducano lo spazio di discrezionalità del giudice, la confessione può esser considerata come condizione essenziale ai fini dell’applicazione della mediazione: a sua volta, quest’ultima, potrà servire da parametro ai fini della valutazione dell’esito della prova.
Altro spazio normativo utilizzabile ai fini dell’applicazione della mediazione è quello offerto dall’art.56423 c.p.p, nella cui rubrica si legge “tentativo di conciliazione”, o per meglio dire si leggeva visto che tale articolo è stato abrogato in seguito alla riforma del Giudice Unico, e sostituito dall’art.55525 c.p.p.
Considerando la precedente disciplina, la norma aveva ad oggetto reati perseguibili a querela e riconosceva al pubblico ministero, sin dalle prime mosse del procedimento, il potere di chiamare il querelante e il querelato davanti a sé per tentare la conciliazione, con lo scopo di arrivare alla remissione della querela e alla richiesta di archiviazione davanti al giudice delle indagini preliminari.
In realtà, la mediazione è cosa ben diversa dal tentativo di conciliazione. La prima, infatti, ha come scopo la gestione del conflitto e non necessariamente conduce alla conciliazione delle parti; il secondo persegue, invece, uno scopo processuale pratico, identificabile nella remissione della querela e nella deflazione del carico processuale. Inoltre, il tentativo di cui all’art.564 c.p.p. deve esser fatto dal pubblico ministero o comunque da un soggetto coinvolto nel procedimento penale, in contrasto con quanto previsto nella mediazione, nella quale il mediatore deve esser un soggetto non direttamente investito del procedimento penale.
In tale prospettiva, il tentativo di conciliazione appariva non come punto di partenza per l’applicazione di un’ipotesi di mediazione, bensì come punto d'arrivo, in quanto il pubblico ministero poteva sempre proporre la mediazione al fine di osservare la personalità del minore, (come previsto nell’art.9d.P.R. 448/88) e, qualora si raggiungesse la disponibilità alla conciliazione, anche grazie al tramite dell’attività del mediatore, sarebbe stato più semplice riuscire nel tentativo di cui all’art.564 c.p.p, finalizzato, per l’appunto, alla remissione della querela.
Oggi il nuovo art.555c.p.p. rende obbligatorio tale tentativo di conciliazione modificandone, però, l’attore istituzionale in quanto non è più il pubblico ministero, in quanto parte processuale, bensì il giudice che, come il mediatore, riveste una posizione di neutralità, tale da garantire, almeno potenzialmente, la neutralità rispetto alle parti in conflitto.
Un ultimo, almeno sino ad ora, spazio per attuare la mediazione può trovarsi nell’applicazione delle sanzioni sostitutive e delle misure alternative alla detenzione.
In particolare, mi riferisco all’affidamento in prova al servizio sociale (art.47 L.354/75), per quanto concerne le misure alternative alla detenzione; mentre, in tema di sanzioni sostitutive, la libertà controllata, di cui all’art.75 L.689/81, ne è un esempio.
La norma che disciplina l’affidamento in prova al servizio sociale, infatti, prevede esplicitamente che all’atto dell’affidamento sia redatto dal tribunale di sorveglianza un verbale in cui vengano riportate le prescrizioni che il suo destinatario dovrà seguire e, tra queste, può esser stabilito, ex art. 47, 7°com L354/75, “che l’affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato”. Tale norma risulta applicabile anche in riferimento all’esecuzione della sanzione sostitutiva della libertà controllata in virtù di quanto previsto dall’art. 75 L. 689/81 per il quale, quando il condannato è un minorenne, la libertà controllata è eseguita con le modalità stabilite dall’art.47 L.354/75 ed individuabile nell’affidamento in prova al servizio sociale.
Appare pertanto possibile che, anche in sede di esecuzione della libertà controllata, si possa disporre che il condannato si adoperi in favore della vittima, previo consenso di quest’ultima verso tale eventuale attività.
In realtà, in fase di esecuzione della pena, quando cioè già vi sia stata una pronuncia di condanna nei confronti del minore, un'eventuale attività di mediazione assumerebbe una valenza diversa e meno significativa di quanto potrebbe assumere nelle fasi del procedimento penale che procedono la condanna.
Quest’ultima, infatti, è il momento in cui si esaurisce il procedimento penale in corso, ispirato al principio retributivo: in realtà, esso già costituisce una risoluzione del conflitto attraverso l’afflizione dell’autore del reato. Sovrapporre a tale forma di risoluzione del conflitto anche un’esperienza di mediazione, credo francamente che risulterebbe una forzatura, visto quanto, sino ad ora, evidenziato.
Dopo la condanna si potrà, forse, con più utilità, cercare di attuare misure riparative del pregiudizio provocato dal reato che coinvolgano, se necessario, anche la famiglia del minore, come d’altra parte previsto dall’art.47, 7°com. L.354/75, piuttosto che tentare la conciliazione tra la vittima e il minore.
Quanto detto si comprenderà in modo più chiaro ove si analizzi, senza scendere nello specifico, l’affidamento in prova nella sua duplice veste: in funzione sostitutiva, secondo quanto previsto al 3°com. dell’art.47, ed in funzione trattamentale, come indicato al 2°com. dell’art.47.
Anche per l’affidamento in prova, così come per la messa alla prova, momento fondamentale è rappresentato dalla valutazione effettuata al termine del periodo di prova ma, mentre nell’affidamento in prova siamo di fronte ad una misura che consegue ad una condanna alla pena detentiva, nella messa alla prova una pronuncia di condanna non è ancora intervenuta. E’ anche vero, però, che proprio perché l’affidamento in prova è disposto durante l’esecuzione della pena, esso risponde agli inconvenienti derivanti dal lungo periodo decorso, dall’avvenuto reato, per la definizione del procedimento.
Anche nella fase esecutiva del processo penale minorile continua ad essere rilevante il recupero del minore deviante e, in quest’ottica, seppur sia stata irrogata una pena detentiva eseguibile, non sempre l’esecuzione comporta di necessità l’internamento in un istituto carcerario. Vi è, infatti, la possibilità di disporre misure alternative alla detenzione.
Il provvedimento è adottato sulla base dei risultati dell’osservazione della personalità condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, in quei casi in cui si possa ritenere che il provvedimento contribuisca alla rieducazione del reo ed assicuri la prevenzione dall’eventuale pericolo di nuovi reati.
All’ipotesi di affidamento in prova mediato dai risultati dell’osservazione in istituto, art.47 comma 2°ord.pen., si affianca, infatti, quella di misura concedibile sulla base di una valutazione del comportamento assunto dal minore dopo la commissione del reato, ma antecedentemente all’esecuzione della pena, art.47 comma 3°ord.pen. e, inoltre, in virtù del nuovo congegno applicativo, si consente la sua concessione differita ad un periodo di libertà al di fuori di prescrizioni comportamentali e in assenza di interventi dei servizi sociali.
La nuova disciplina, sulla base delle valutazioni effettuate tende così a deformare l’originaria funzione trattamentale dell’affidamento in prova, ma il ricorso alla mediazione, quale strumento di riscontro dell’effettiva possibilità per il minore di esser reinserito nel tessuto sociale là dove, in corrispondenza alla già avvenuta applicazione della pena, la vittima sia disposta a procedere ad incontri e, in quest’ambito, raggiungere un eventuale accordo sulla possibilità di concedere, anche in via anticipata, il consenso al reinserimento del reo, permette di raggiungere ogni chiarificazione.
L’art.47 comma 4°ord.pen. impone al condannato in esecuzione della pena di presentare richiesta al magistrato di sorveglianza, abilitato a disporre la scarcerazione ove ritenga integrati i presupposti dell’affidamento in prova. Pur dovendo accertare i requisiti necessari per l’applicazione della misura, il magistrato di sorveglianza non è autorizzato a disporre l’applicazione, rimessa alla competenza del giudice collegiale di sorveglianza. Tra il provvedimento interinale e quello di merito, può intercorrere un intervallo di tempo durante il quale il minore condannato si trova in una misura di libertà piena, giustificabile là dove si utilizzi tale lasso di tempo per comprendere i cambiamenti del minore, la sua voglia di riconciliarsi con la vittima, il suo pentimento, la concreta possibilità di reinserimento sociale.
Il comportamento assunto dal minore sarà, pertanto, oggetto di valutazione da parte del tribunale di sorveglianza nel momento in cui si debba decidere sulla concessione della misura.
Per effetto delle accennate innovazioni processuali, viene a profilarsi una forma inedita, e per certi aspetti anomala, di affidamento in prova facente leva contemporaneamente sui risultati dell’osservazione della personalità in carcere e sulla valutazione del comportamento del minore in libertà.
A prima vista, in presenza di una valutazione favorevole, la concessione dell’affidamento in prova viene a prospettarsi come conclusione vessatoria comportando, a distanza di tempo e nei confronti di un soggetto che ha dimostrato di saper fare buon uso della libertà, la soggezione ad una serie di limitazioni che danno spessore punitivo alla misura
Se, infatti, andiamo a subordinare, sin da subito, la concessione della libertà alla realizzazione di incontri tra reo e vittima, sempre che quest’ultima acconsenta, e, in base all’esito dell’iter di mediazione si decida se applicare o meno l’affidamento in prova, il minore anche nella fase di libertà sarebbe sottoposto a controlli che, per quanto diversi dall’ordinario immaginario, potrebbero risultare efficienti ed in grado di sanare le anomalie presenti nella normativa penitenziaria.
In questa nuova prospettiva deve, allora, esser letta la preclusione prevista nel secondo periodo dello stesso comma 4 dell’art.47ord.pen., a norma del quale è inibito al magistrato di sorveglianza di disporre altra sospensione in relazione al medesimo titolo esecutivo ove l’istanza non sia stata accolta. Se può condividersi l’intenzione a base della norma, trattandosi di divieto volto ad evitare la presentazione ripetuta di istanze strumentali, dall’altro ove, attraverso la mediazione in fase penitenziaria ed indipendentemente dal risultato della stessa, il minore condannato sia stato responsabilizzato, non si può nascondere l’eccessiva rigidità della norma.
Unico esplicito riferimento normativo alla mediazione penale nel campo giuridico si deve individuare nel recente decreto legislativo recante “Disposizioni in materia di competenza penale del giudice di pace”, adottato dal Consiglio dei Ministri il 25 agosto 200026.
Il decreto legislativo sulle competenze del giudice di pace è il frutto di un uso costante e diverso di esercizio dell’azione penale che, insinuatosi nella prassi di alcuni tribunali, ha ottenuto un opinio iuris tale da farla divenire vincolante e sentire la necessità di trasferire quel che “all’inizio era solo prassi” in una fattispecie legislativa.
La mediazione, infatti, nasce prima nell’uso che di essa ne fanno alcuni Tribunali, primo fra tutti quello di Torino, e solo poi va concretizzandosi attraverso interventi normativi: il decreto legislativo sulla competenza penale del giudice di pace segna un passo in avanti; se sino a questo momento la mediazione era, al di là di riferimenti indiretti, solo oggetto di protocolli d’intesa tra Regioni e Tribunali, oggi diviene frutto di un intervento diretto del legislatore.
Sembrerebbe, in un certo qual modo, un’ipotesi di codificazione della prassi che, se per il diritto internazionale è “all’ordine del giorno”, di certo non lo è per il diritto penale.
La legge che ha esteso al campo penale la competenza del giudice di pace contiene, per la prima volta, un riferimento esplicito alla mediazione, consentendo ai giudici di pace di promuovere in via privilegiata la composizione del conflitto26.
La peculiarità risiede nel consentire una reale flessibilità delle risposte.
Il giudice può, infatti, scegliere tra misure:
– di tipo conciliativo/mediativo
– di tipo meramente riparativo
– di tipo sanzionatorio, nel qual caso non è ammessa sospensione condizionale della pena, per garantire l’effettività della sanzione eventualmente irrogata.
Anzitutto consideriamo la mediazione in vista della riconciliazione tra le parti, ex art.29D.lg 274/2000, la quale può esser promossa direttamente dal giudice, quando il reato è perseguibile a querela. In questo caso, il giudice- che può agire personalmente come mediatore o avvalersi di mediatori esterni all’apparato giudiziario- ha il potere di rinviare l’udienza per un periodo non superiore ai due mesi, per consentire lo svolgimento della mediazione.
A differenza che nel sistema processuale minorile, qui la mediazione emerge com'elemento della privatizzazione del conflitto, realizzando una forma di depenalizzazione affidata alla remissione della querela.
L’art.29 consente di risolvere, uno dei problemi principali del ricorso alla mediazione nella fase delle indagini preliminari: quello della compatibilità di tale istituto con il principio di presunzione d'innocenza.
Per accedere alla mediazione occorre, infatti, almeno una consapevolezza virtuale da parte dell’indagato, dovendo questi ammettere la propria responsabilità di fronte al fatto contestato. L’offerta di mediazione rivoltagli rappresenta, sotto il profilo della presunzione di non colpevolezza, un’arma a “doppio taglio”: l’accusato che accede alla proposta di mediazione ha, infatti, già ammesso la propria responsabilità.
Ci s'interroga, nel caso in cui la mediazione non vada a buon fine, sull’utilizzo delle dichiarazioni confessorie che hanno preceduto il tentativo di mediazione. Si tratta di una situazione anomala rispetto alle regole dettate in materia di diritto di difesa dell’imputato dal codice di procedura penale che assicura, agli art.62 ss. l’estensione dei diritti e delle garanzie previsti per l’imputato alla persona sottoposta alle indagini.
L’autorità giudiziaria deve, infatti, contestare in forma chiara il fatto attribuitole, dichiarare gli elementi di prova esistenti (art.65c.p.p.) e informare l’indagato della facoltà di non rispondere (art.64 3°com.); nel caso, poi, che la persona interrogata non abbia la qualità d'indagato, e renda dichiarazioni autoindizianti, è fatto obbligo all’autorità giudiziaria di interrompere l’esame, di avvertire la persona che, a seguito delle dichiarazioni rese, potranno esser avviate delle indagini, invitandola, successivamente, a nominare un difensore.
La legge istitutiva delle competenze penali del giudice di pace sembra risolvere il problema facendo divieto d'utilizzazione delle dichiarazioni rese dalle parti durante la mediazione, ai fini della dichiarazione stessa (art.29, 4°com.c.p.p.).
Oltre a consentire il ricorso alla mediazione, la legge istitutiva della competenza penale del giudice di pace prevede un istituto riconducibile al paradigma riparatorio: l’art.35, infatti, riconosce alla condotta riparativa, posta in essere prima del giudizio, efficacia estintiva del reato. In particolare, la norma prevede che, prima dell’udienza di comparizione, il reo possa dimostrare di aver provveduto alla riparazione del danno e all’eliminazione delle conseguenze dannose, o pericolose, della propria condotta, che il giudice sia tenuto a verificare, ai fini del riconoscimento della validità della causa estintiva, che la riparazione del danno sia idonea a soddisfare le esigenze di riprovazione e prevenzione. Così prescrivendo, la norma introduce due parametri ai fini dell’esercizio della discrezionalità del giudice di pace: la prevenzione e la riparazione. La prevenzione potrebbe esser intesa sia in termini di prevenzione generale, soddisfacendo le esigenze di stabilizzazione sociale, sia in termini di prevenzione speciale, in cui la riparazione deve portare alla riconciliazione tra vittima e autore.
L’innovazione più grande apportata dalla legge istitutiva della competenza penale del giudice di pace è individuabile nell’estensione fatta anche agli adulti del proscioglimento per irrilevanza del fatto: in quest’ambito, la mediazione può rivelarsi utile ai fini della valutazione della tenuità del fatto, poiché consentirebbe un’analisi più accurata dell’episodio criminoso. Nella valutazione delle condizioni che consentono l’esclusione della procedibilità, nei casi di particolare tenuità, al giudice è concessa un’ampia discrezionalità, potendo egli non dar seguito all’esercizio dell’azione penale, intrapresa dal pubblico ministero e riconoscere, con sentenza, la particolare tenuità del fatto.
In realtà, tale riforma istitutiva della competenza penale del giudice di pace, s'inserisce nel tracciato della decisione quadro del Consiglio d’Europa del 15 maggio 2001 che incoraggia, in un contesto di maggior tutela delle vittime, il ricorso alla mediazione e l’effettività del diritto delle vittime ad esser informate sulla vicenda processuale. Nello specifico, l’art.10 di detta Decisione quadro prevede che “Ciascuno Stato membro provveda a promuovere la mediazione nell’ambito dei procedimenti penali per i reati idonei a questo tipo di misura. Ciascuno Stato membro provveda a garantire che eventuali accordi della mediazione, nell’ambito di procedimenti penali, vengano presi in considerazione”.
Il tentativo di conciliazione risulta possibile solo per i reati procedibili a querela per i quali, per lo più, non si arriva mai a celebrare un processo con pieno dibattimento, perché un’efficacia deflattiva è inimmaginabile laddove vada ad incidere sul ricorso ai riti differenziati.
Mi chiedo, pertanto, se l’efficacia deflattiva possa o meno considerarsi un parametro corretto per valutare l’opportunità dell’inclusione della mediazione nell’ordinamento penale.
Considerare la mediazione come uno degli strumenti della depenalizzazione, così come emergerebbe dal D.lg. dell’agosto 2000, n°274, sembra alquanto riduttivo, poiché si finirebbe con il valorizzare la sola competenza risarcitoria della mediazione, privandola della valenza di “soluzione del conflitto”, nel senso di chiave di ricostruzione della comunicazione sociale.
Certo, noi possiamo applicare la mediazione in svariate ipotesi, come per esempio nelle prescrizioni per la conciliazione, però, se vogliamo sviluppare le potenzialità che la mediazione ha dimostrato nell’esperienza di altri paesi, dobbiamo cercare di darle quella collocazione e disciplina in grado di garantirle le migliori possibilità di realizzazione e di sviluppo, in conformità con le sue peculiari caratteristiche.
Rispetto al d.lg del 2000 sulle competenze penali del giudice di pace, senza peraltro nulla togliere all’importanza che segna un intervento di tal tipo, si ha l’impressione di una frettolosa rincorsa, sul terreno legislativo, delle esperienze di altri ordinamenti, viceversa precedute da decenni di sperimentazioni, in cui la disciplina positiva ha preso le mosse da un patrimonio di dati empirici sottoposti a ricerche, verifiche, discussioni che hanno consentito di individuare ed adattare al meglio lo spazio per la mediazione nel sistema del diritto penale e processuale, salvaguardandone, per quanto possibile, la peculiare valenza di percorso alternativo rispetto a quello della reazione penale in senso stretto.
Nel nostro ordinamento, non solo siamo ancora nella fase iniziale di una seria e diffusa esperienza di mediazione nell’ambito minorile, ma soprattutto permane grande incertezza circa la sua stessa rilevanza giuridica, collocazione processuale e tecnica.
Il rischio è che premature scelte normative incidano su fondamentali categorie sostanziali e garanzie processuali del diritto penale, in assenza di una collaudata alternativa per la risoluzione dei conflitti innescati dai fenomeni delittuosi. Infatti, laddove compete al diritto penale, alla pena, legalmente irrogata, rappresentare lo strumento di legittima reazione al reato, non si può certo prescindere da categorie quali l’imputabilità, la colpevolezza, il “fatto tipico”, la proporzionalità della sanzione rispetto all’offesa.
Prendendo esempio dalle esperienze straniere, deve prima svilupparsi un ampio dibattito sulla mediazione, riflessioni, confronti, ulteriori esperienze anche se, i recenti sviluppi avutisi in tal senso presso Tribunali e Procure minorili, dimostrano che un significativo cammino è già iniziato: si tratta di verificare la sua effettiva potenzialità di strumento in grado di evolversi e di approdare ad innovativi interventi legislativi.
La mediazione in campo penale dovrà essere un’occasione utile di riflessione e di confronto per magistrati, avvocati, psicologi, assistenti sociali ed educatori, in quanto soltanto l’integrazione di più competenze professionali potrà realizzare un’operatività in grado di fornire risposte utili alle domande che, attraverso il reato e il conflitto, giungono alla Giustizia.
Pur ribadendo, pertanto, la necessità di una collaborazione tra professionisti di campi diversi, è necessario riaffermare l’esclusività della competenza del giudice minorile in ambito decisionale rispetto all’applicazione della mediazione.
Quale sarà, allora, la carta vincente per una buona riuscita della mediazione?
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, funzione centrale assumerà il ruolo del giudice; credo, infatti, che sia proprio nella sua autorevolezza e fermezza, nel suo intuito, in quella discrezionalità decisionale che caratterizza il ruolo del giudice minorile, che vadano ricercati gli elementi essenziali per una buona mediazione.
Attraverso la mediazione penale si focalizza la centralità della figura del giudice minorile: la mediazione non è un quid oscuro ed estraneo al processo, bensì è parte integrante di un percorso giuridico penale di cui il giudice è l’artefice principale.
In effetti, il giudice minorile assume, metaforicamente, la posizione di "co - mediatore" a fianco degli operatori che conducono il processo di mediazione. Difatti, senza la presenza e l'azione della magistratura minorile nessun intervento mediativo è realmente efficace e possibile.
La mediazione ha lanciato la sua sfida e il sistema giuridico minorile sembra averla accettata: si tratterà ora di verificarne le conseguenze.


BIBLIOGRAFIA
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Note
1 Pavarini, M., “Decarcerizzazione e mediazione nel sistema penale minorile”, Picotti, L. (a cura di), La mediazione nel sistema penale minorile” in Repertorio 1998, Diritto Processuale Penale, Cedam, Padova 1998;
2 La c.d. “Vienna Declaration” è scaturita dai lavori del decimo Congresso Internazionale delle Nazioni Unite su “Crime Prevention and Triatment of offenders”, iospitato a Vienna dal 10 al 17 aprile 2000, e seguito da una riunione della “ U.N. Commission on Crime Prevention and Criminal Justice” nel corso della quale tale Dichiarazione è stata formalizzata nella sua veste definitiva.
3 §27- Noi decidiamo di introdurre laddove risulti opportuno, strategie di intervento a livello nazionale, regionale e internazionale a supporto delle vittime di reato, quali la mediazione e gli istituti della giustizia riparativa, e fissiamo nel 2002 il termine entro il quale gli Stati sono chiamati a valutare le procedure idonee a promuovere ulteriori servizi di supporto alle vittime e campagne di sensibilizzazione sui diritti delle stesse e a prendere in considerazione l’adozione di fondi per le vittime, nonché a predisporre e sviluppare programmi di protezione testimoni”.
§28- Noi incoraggiamo lo sviluppo di politiche di giustizia riparativa, di procedure e di programmi che promuovano il rispetto dei diritti, dei bisogni e degli interessi della vittima, degli autori di reato della comunità e di tutte le altre parti.
4 Si pensi al fatto che, nel nostro ordinamento, l’art 10 d.P.R. 448/88 vieta la costituzione di parte civile nel processo penale a carico di imputati minorenni.
5 Faget,J., in "Justice et travail social. Le rhizome pénal", Eres, Toulouse 1992.
6 La Raccomandazione del Consiglio d’Europa, infatti, colloca il principio della libertà-volontarietà tra i “principi generali”, specificando che in ogni caso la partecipazione deve essere volontaria”, Racc. 19
7 A seconda che il mediatore s'intrattenga con le parti contestualmente o separatamente e venga scelta unilateralmente da parte del reo un’attività di riparazione delle conseguenze del reato non concordata in via diretta con la persona offesa.
8 Art.14 Raccomandazione del Consiglio d’Europa: “la partecipazione alla mediazione non deve essere utilizzata come prova di ammissione di colpevolezza nelle ulteriori procedura giudiziarie”.
9 VOM è la sigla d'abbreviazione di Victim – Offender Madiation.
10 Mannozzi, G., “Collocazione sistematica e potenzialità deflattive della mediazione penale,” in De Francesco – Vemafro (a cura di), Meritevolezza di pena e logiche deflattive, Torino, 2002
11 Castelli, A., “La mediazione. Teorie e tecniche”, Milano, 1996, p. 40
12 Hulsman, Peines perdues, Parigi, 1982, p.156
13 Così Paliero, Depenalizzazione (voce) in Dig. Disc.Pen.., 1989, p. 413 sgg “Il termine depenalizzazione è usato in un'accezione molto ampia e tale da includere ogni forma di attenuazione o di modificazione delle varianti semantiche della coppia concettuale descriminalizzazione/depenalizzazione.
14 Ceretti, A.,Di Ciò, F., Mannozzi, G., “Giustizia riparativa e mediazione penale: esperienze pratiche a confronto” in Fulvio Scaparro (a cura di), Il coraggio di mediare,Milano, 2001
15 In proposito, v. Ceretti, A., “Come pensa il tribunale per i minorenni,” Milano, 1998;l’autore ritiene che solo attraverso le pratiche della mediazione si possa uscire da una logica che iscrive il che iscrive il percorso della sofferenza delle vittime solo in una domanda di risarcimento e di pena dell’ offensore.
16 L’art 28 d.P.R. prevede che con l’ordinanza di sospensione “ il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minore con la persona offesa dal reato”, ma anche l’art.27 D.lg 28 luglio 1989, n°272 “norme di coordinamento e transitorie del d.P.R. 448/88”.
17 Art 9 d.P.R. 448/88: “Il pubblico ministero e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure personali e adottare gli eventuali provvedimenti civili. Agli stessi fini il pubblico ministero e il giudice possono sempre assumere informazioni da persone che abbiano avuto rapporti con il minore e sentire il parere di esperti, anche senza alcuna formalità”.
18 Per una maggior comprensione visiva si veda l’allegato n.1
19 Art. 27 dip.proc.pen.min.: “Durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non luogo a procadere per irrilevanza del fatto quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne. Sulla richiesta il giudice provvede in camera di consiglio sentiti il minore e l’esercente la potestà dei genitori, nonché la persona offesa dal reato. Quando non accoglie la richiesta il giudice dispone con ordinanza la restituzione degli arri al pubblico ministero. Contro la sentenza possono proporre appello il minorenne e il procuratore generale presso la corte d’appello. La corte d’appello decide con le forme prviste dall’art.127 del cod.proc.pen. e, se non conferma la sentenza, dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero. Nell’udienza preliminare, nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato, il giudice pronuncia d’ufficio sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, se ricorrono le condizioni di cui al comma 1”.
20 Si deve puntualizzare che il fatto mantiene la sua rilevanza come fatto illecito per tutti gli effetti diversi da quello penale e, in particolare, è fonte di responsabilità civilistiche per i danni eventualmente cagionati.
21 Art.28 disp.proc.pen.min: “Il giudice sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minore all’esito della prova disposta a norma del 2°comma. Il processo è sospeso per un periodo non superiore a tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione inferiore nel massimo a dodici anni; negli altri casi, per un periodo non superiore a un anno. Durante tale periodo è sospeso il corso della prescrizione. Con l’ordinanza di sospensione il giudice affida il minore ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con il medesimo provvedimento il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minore con la persona offesa dal reato. Contro l’ordinanza possono ricorrere per cassazione il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore. La sospensione non può essere disposta se l’imputato chiede il giudizio abbreviato o il giudizio immediato. La sospensione è revocata in caso di ripetute e gravi trasgressioni alle prescrizioni imposte”.
22 Per una maggior chiarezza si veda l’allegato n. 2
23 Così recitava l’art.564 c.p.p. “In caso di reati perseguibili a querela il pubblico ministero, anche prima di compiere atti di indagine preliminare, può citare il querelante e il querelato a comparire davanti a sé al fine di verificare se il querelante è disposto a rimettere la querela e il querelato ad accettare la remissione, avvertendoli che possono farsi assistere dai difensori”.
24 Art. 555 c.p.p. 3°com: “Il giudice quando il reato è perseguibile a querela, verifica se il querelante è disposto a rimettere la querela e il querelato ad accettare la remissione”.
25 Per una maggior comprensione si veda l’allegato n.3
26 Decreto legislativo del 28 agosto 2000, n°274 in supplemento ordinario n°164/4 alla Gazzetta Ufficiale n°234 del 6 ottobre 2000
27 La legge introduce inoltre un catalogo di sanzioni –pena pecuniaria, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica autorità- applicabili ai soli reati di competenza del giudice di pace, ai quali si ricorre in via esclusiva, per i reati non perseguibili a querela, oppure, in via sussidiaria, per i reati perseguibili a querela, quando il tentativo di ricomposizione del conflitto attraverso la mediazione- riparazione non sia andato a buon fine.
28 Il giudice, a norma dell’art.35 3°com.,può sospendere il processo per un periodo non superiore a tre mesi per consentire al reo di provvedere alla riparazione.

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