IL MALINTESO E LE CULTURE:


di Giancarlo Francini Psicologo psicoterapeuta, Istituto di Terapia Familiare di Firenze, didatta AIMS pappalardo.francini@libero.it


Il conflitto nella comunità
Quando si tenta di individuare un natante nell’oceano abbiamo bisogno di punti di riferimento dai quali partire per tracciare delle coordinate.
Sappiamo però che ogni punto di un sistema è in collegamento con gli altri: per cui è impossibile e solo esigenza tecnica isolare una parte conflittuale all’interno della comunità, poiché un conflitto coinvolge sempre tutte le parti di quel sistema: Nel 1963 il metereologo E.Lorenz attraverso una serie di studi apriva di fatto lo studio del caos o meglio delle dinamiche caotiche: in estrema sintesi (addirittura ipersemplificata e ridotta) egli affermava che se all’interno di un esperimento, si apportano piccolissime, infinitesimali modifiche, il sistema sembra impazzito e procede verso il caos; ma se si guarda bene quel caos, cercandone un’immagine grafica, ci si può accorgere che vi è in esso una struttura e un ordine. Famoso è l’esempio, (metaforico) usato da Lorenz, secondo il quale chi osserva un uragano ad ovest e pensa al caos o alla casualità di quel fenomeno, non sa e non ha visto il battito della farfalla ad est che, in quanto modifica di uno status quo, è una delle variabili che può aver reso instabile il sistema e aver prodotto l’uragano. Secondo la teoria di Lorenz, “seppure una previsione esatta dei fenomeni sia pressoché impossibile, è comunque possibile determinare il tipo di imprevedibilità del modello o in altri termini, se non è possibile rappresentare un ordine è però definibile una forma ben determinata di disordine1”. Data la correlazione delle variabili presenti in un sistema, seppure non sia prevedibile un evento, è comunque prevedibile un processo, purché lo si voglia osservare e cogliere nel suo insieme e non isolarne gli eventi.
Anche un conflitto all’interno di una comunità sociale, non può essere osservato e compreso solo a partire dal singolo evento scatenante, ma va inquadrato nel suo processo, probabilmente colto nelle sue ridondanze e fotografato nella autoreferenzialità della sua dinamica conflittuale: di conseguenza l’intero sistema va osservato e l’evento collegato ad altri eventi o elementi di quel sistema attraverso coordinate non solo spaziali ma (se mi si passa il termine) storiche.
D’altra parte non possiamo più osservare il conflitto come la manifestazione di un male da estirpare, bensì come la manifestazione di frattura, di un cambiamento, che al di là della sofferenza che provoca può di per sé essere anche evolutivo.
In fondo non sappiamo, a livello specie specifico, cosa sia dannoso e cosa non lo sia; prendiamo un altro esempio dalle scienze biologiche: In una ricerca degli anni ’70 in Inghilterra, su una determinata specie di farfalle, gli etologi si domandarono come mai, in una specie in cui la sopravvivenza degli individui è legata alla capacità di mimetizzarsi sulla corteccia bianca dei pioppi (per non essere visti dagli uccelli predatori) nascevano individui completamenti neri che quindi erano vistosi quando si collocavano su quegli alberi dalle cortecce tanto bianche: ovviamente erano prontamente individuati dai predatori e eliminati. La risposta a questa stranezza genetica fu individuata solo qualche anno più tardi, quando, a causa di un imprevedibile cambiamento dell’habitat, (lo smog prodotto dai fumi industriali), la corteccia degli alberi divenne nera e fu allora la volta delle farfalle bianche ad essere preda degli uccelli: la variabilità all’interno della specie garantisce nicchie di sopravvivenza della specie stessa di fronte ad imprevedibili mutamenti dell’habitat o del contesto.
Metaforicamente volevo dire che ciò che ci appare come elemento irrazionale, o imprevedibile, non deve essere necessariamente eliminato tagliato via bensì potrebbe rappresentare la risorsa per riprendere un ciclo evolutivo in un sistema che, bloccatosi, rischia l’autodistruzione o comunque la forte sofferenza dei suoi membri. Ancora una volta, però, la risorsa la troviamo solo mettendo in relazione ciò che ci sembra anche distante dall’evento che osserviamo: ancora una volta il conflitto può essere affrontato se ci rivolgiamo al sistema nella sua globalità.
Nel conflitto in comunità l’unica nostra risorsa è ….. il cannocchiale di Carmine.

Il cannocchiale di Carmine
Non c'è dubbio che ciò che è culturale sia "oggetto condiviso" da più persone (più o meno consapevolmente); e ciò che è condiviso in qualche maniera "lega", diventa collagene che apparenta e fa appartenere, non importa se per differenza e/o per opposizione.
Ciò che lega sta in mezzo e, pur appartenendo a tutti i soggetti coinvolti nel legame, non è di uno in particolare, e non è riducibile a nessuno di loro, e non è la somma dei vari punti di contatto né un'ipotetica somma dei vari soggetti stessi: è qualcosa d'altro. Questo non vuol dire che sia non conoscibile, o che non abbia caratteristiche conoscibili e studiabili, tanto è vero che le persone coinvolte nel "legame" sanno bene (più o meno consapevolmente) quale rapporto li lega. A chi si trovasse a guardarli da lontano chiaramente apparirebbero collegati e, da quella posizione, potrebbe notare che il loro essere legati (o in rapporto) segue una serie di caratteristiche pur rimanendo frutto di soggettività individuali; chi si trovasse, appunto, da lontano, a guardare vedrebbe una relazione tra i partecipanti.
Una finestra aperta del palazzo di fronte, presenta un lattante che si allatta al seno della madre: il bambino succhia e ogni tanto muove i piedi, si aggrappa con i pugni e gli occhi guardano la madre; potremmo essere più precisi nell'osservazione e potremmo anche fare considerazioni, ipotesi e teoremi, su quel bambino; se fossimo ancora più scientifici potremmo intervistare la mamma (visto che il lattante si rifiuta perché ad altro affaccendato), su cosa stia facendo quel bambino e sul comportamento del cucciolo d'uomo. Ma sempre la nostra attenzione sarebbe posta su quel bambino. Magari se fossimo donne potremmo spostare l'attenzione sulla maternità (per negarla o accentuarla) o sulla condizione di donna esclusa dalla produzione perché allatta. Ma solo sulla donna.
Fortunatamente qualcuno ha preferito osservare cosa facevano quei due: quando il bambino succhia, la mamma che fa? e quando il bambino guarda chi guarda? E la mamma a sua volta lo guarda o no? Come dire abbiamo tolto il vetrino con il bambino o quello con la mamma e ci abbiamo messo quello con entrambi; però abbiamo dovuto prendere un microscopio più grande.
Sarà perché spesso mi diverto a rigirar le cose ma quando ho visto la scenetta alla finestra, io ho pensato: dov'è il padre? e la nonna? e fratelli ce ne sono? Ma esagerando poi ho alzato lo sguardo e ho pensato: ma quelli al piano di sopra quanto influenzeranno il ritmo di poppata che sappiamo essere proprio di ogni coppia madre/bambino e influenzato da una miriade di micro e macro fattori? Ho buttato il microscopio e ho fatto come fece Carmine Saccu2 una volta in terapia: ho fatto un cannocchiale con la carta e poi ho guardato la differenza tra l'estremità stretta e quella larga: la prima permette di guardare solo un punto della scena perdendo il resto, l'altra, allargando, permette di vedere le relazioni tra i vari elementi sulla scena.
Non vi preoccupate non sono qui a tracciare le lodi del comportamentismo neo o vetero che sia: io penso invece che quel bambino, quando guarda la madre veda la relazione tra madre e padre, cosa è successo di recente con la nonna etc. etc. tutte cose che passano dalla testa della madre, come i litigi con i condomini del piano di sopra, fino, addirittura. al suo senso di madre, frutto di identificazioni incrociate (cioè le sue e quelle degli altri).
Se ancora non si è capito io preferisco osservare le relazioni tra le persone (appunto ciò che le lega) e so quanto di mitico esiste in esse e quindi di culturale, nel senso però non solo del simbolico umano ma anche del trasformato nell'oggi.
Il vissuto di una persona non emerge solo dal suo sentire, ma dall'intersezione del suo sentire con quello degli altri, così pure la funzione che egli assolve nella relazione, è comprensibile solo se messa in rapporto agli altri, non perché io ricerchi delle vittime (da tardo-romantico), ma perché tutti partecipano alla relazione e non possono non parteciparvi; se parliamo di membri di una famiglia, partecipano per il solo fatto che appartengono.
Credo allora che dobbiamo porci di fronte ai fenomeni e alle dimensioni esistenziali connotate culturalmente, che sono necessariamente in relazione con la comunità, con il cannocchiale impugnato dall'estremità stretta (ad allargare cioè), e andare con i nostri strumenti a cogliere il più possibile l'intreccio che lega, pur rimanendo ovviamente su un punto di vista e non sulla oggettività pura (se mai ci interessasse). E' ovvio che questo obbiettivo apre il discorso sugli strumenti che usiamo: ci sono strumenti che "vanno a stringere" e altri "che vanno ad allargare", nel senso del cannocchiale.

La mediazione ovvero l’incontro tra sistemi
La parola fa riferimento a qualcosa che si interpone, che si pone in mezzo. Cos’è questo qualcosa?
Più giusto pensare ad una funzione più che ha un oggetto o a una persona: è la funzione svolta che fa opera di mediazione più che la persona in sé.
Ma quale funzione? La funzione di mettere in relazione due parti.
Le parti sono non connesse, c’è tra le loro estremità uno spazio; vanno messe in relazione: questa la funzione dell’opera di mediazione.
Il mediatore quindi non è arbitro, ma casomai veicolo, riferimento (come la sponda a biliardo), interfaccia tra le parti.
Addirittura, Hegel riteneva che la mediazione non consisteva nell’usare un “mediatore per far conoscere due parti”: una parte non poteva, secondo lui, essere conosciuta se non per se stessa: il terzo in mezzo, essendo diverso dalle parti non permetteva la conoscenza della verità. Tutto questo veniva riferito alla funzione di mediazione della riflessione, cioè l’uso di un concetto per comprenderne un altro diverso: secondo lui era inutile e confusivo.
Quindi la mediazione non funziona come un veicolo, o un trasportatore o ripetitore, asettico e imparziale.
La mediazione essendo una funzione umana risente dell’umanità del mediatore stesso che è strumento della funzione di mediazione.
Come dire che la funzione di mediazione si svolge in mezzo, all’interno del flusso di comunicazioni tra parti a confronto tra loro: impossibile non partecipare; impossibile non reagire al flusso; il rischio è essere sballottati di qua e di là e finire per “dare un colpo al cerchio ed uno alla botte” .
In un certo senso la funzione di mediazione si esplica nell’agire “dell’artigiano che lavora in rapporto alle difficoltà e ai problemi particolari posti dal singolo oggetto che sta costruendo, piuttosto che riferirsi ai principi generali della sua arte. (...) Di qui la necessità di cimentarsi maggiormente col caso concreto (...) Di qui l’importanza di saper cogliere nelle storie di patimenti narrati da individui in difficoltà il filo che collega eventi apparentemente eterogenei in una gestalt capace di illuminare quegli eventi finora oscuri”3.
In un certo senso la funzione della mediazione la si assolve solo immergendosi nel flusso.
Quindi è cosa ben diversa dall’arbitraggio, dal giudicare, dal tradurre: ha per certi versi a che fare col negoziare, cioè con il permettere il passaggio da un polo all’altro di elementi in grado di mettere in relazione, senza però pensare che chi svolge la sua funzione di mediatore sia al di sopra delle parti; è esso stesso parte del negoziato: è in gioco.
Tempo fa Whitaker, cercando un altro termine per sostituire l’idea di entrare in gioco, passò l’immagine della danza: io credo che danzare con e tra le parti sia l’immagine più adeguata della funzione di mediazione.
Ma l’immagine della danza è ancora più utile se ci rivolgiamo alla mediazione culturale, poiché in quel caso l’operatore che svolge una funzione mediatoria, non può non recarsi sul confine, proprio dell’incontro tra le differenze, e “danzare”, in parte portando il ballo, in parte facendosi portare.
Non si può mediare nel conflitto interculturale se non riusciamo a rendere attivo l’altro, attingendo alla sua conoscenza della propria cultura e cercando di confrontarsi noi, operatori, con quella cultura, così come lui farà con la nostra, nell’area propria del malinteso.

Il malinteso: ovvero il confine che prende una forma
La nostra comunicazione è piena di malintesi, ma non per questo smettiamo di parlarci.
Se c’è un malinteso vuol dire che rispetto ad una giusta interpretazione qualcuno ha “deviato”, per poca attenzione o poca volontà ostruzionismo o stupidità.
Iniziamo dalIa definizione di malinteso : il malinteso è un “quasi niente”4, perché se fosse un di più non ci saremmo cascati, ce ne saremmo accorti.
Ma il fatto che sia un quasi niente, una differenza minima, ci fa capire che c’è in quel malinteso qualcosa del mio pensiero che non sono riuscito a dirti, ma anche una parte che sono invece riuscito a comunicare.
Nell’incontro tra culture i malintesi sono assolutamente attesi: lo sappiamo, eppure le culture si sono sempre incrociate non hanno cercato di stare separate: perché?
Perché i malintesi sono lo spazio in cui avviene l’incontro5 tra le culture che si confrontano scoprendosi diverse. Il malinteso è il confine che prende forma, è cioè la zona dell’incontro in cui è possibile conoscersi e conoscere il conoscibile e allo stesso tempo sentire l’ignoto e intuire qualcosa di ciò che è ancora sconosciuto.

Il malinteso inganna poiché in parte non fa capire in parte fa capire:
a) siamo indotti in errore perché le apparenze ingannano, ma anche
b) perché vorremmo che le cose stessero come ce le aspettiamo, in sintesi che gli altri fossero come li vorremmo
Così, quando scopriamo la differenza ne siamo prima sorpresi (l’inganno) poi delusi, (la rabbia). Il nostro disorientamento ci coglie di sorpresa e ci confonde; a quel punto possiamo scappare via e tornare alle spiagge conosciute o sostare ancora un po’ in quei lidi sconosciuti e vedere se in noi affiora la curiosità e l’interesse.
L’incontro è caratterizzato dal malinteso. Si crea cioè uno spazio non definito, non interamente conosciuto e non del tutto conoscibile: in quello spazio è possibile mediare.

Facciamo degli esempi:
1) Esiste uno spazio GHETTO: i ghetti preservano l’identità e proteggono dalla paura dell’omologazione.
Non bisogna infatti dimenticare che la nascita dei ghetti era inizialmente legata al bisogno di proteggersi dall’invasione che poteva venire dall’esterno. Il muro intorno al ghetto, prima di essere il segno di una esclusione era stato uno strumento per proteggere chi lo abitava.
Ricordiamo per esempio la storia dei ghetti ebraici in quasi tutte le grandi città europee; ma anche le riserve indiane. Ma in fondo anche gli odierni quartieri monoculturali di Londra o negli USA assomigliano molto ai ghetti di un tempo.
In fondo l’impostazione anglosassone rimanda direttamente ad una realtà in cui all’interno della stessa comunità, rigidamente connotata, l’affermazione della propria cultura é permessa, mentre rimane aperta la possibilità dell’integrazione in una società esterna in cui la propria cultura non conta, non interessa.
Ma tra l’interno e l’esterno del ghetto, al di là dei rigidi confini imposti o voluti, c’è sempre stata una grande comunicazione (più o meno permessa, tollerata, segreta o pubblica): in fondo l’area intorno al Ghetto non è che un altro ghetto allargato: per esempio da una parte gli ebrei, dall’altra i non ebrei.
Questi spazi (interno/esterno) hanno, appunto, sempre comunicato tra di loro, ma la comunicazione è sempre stata garantita da leggi e quindi rigidamente controllata.
In questa realtà, fatta di ghetti/non ghetti, come per esempio nella impostazione della politica di accoglienza tipica delle regioni anglosassoni, quale mediazione è possibile?
Una mediazione per ambasciatori e quindi una mediazione in cui i rappresentanti dei due ghetti si incontrano seguendo regole e stabilendo accordi e costruendo nuove regole.

2) Esiste uno spazio in cui la differenza è formalmente negata o indifferente, uno spazio che chiameremo dell’APPARENZA, dove cioè si fa finta che la differenza non ci sia: siamo tutti francesi anche chi non lo è; se in casa propria un cittadino mantiene una cultura diversa è una cosa che riguarda il suo privato e non interessa invece lo stato che non sa e non vede. L’apparenza inganna, si dice, ma questo inganno è tutto ciò che possiamo sapere dell’apparenza.
L’apparenza ha attraversato tutta la storia della filosofia occidentale, da Parmenide fino alla fenomenologia. Il termine Apparenza è stato inteso in due sensi: il 1° come nascondimento della realtà; il 2° come manifestazione o rivelazione della realtà. Se ci rifacciamo al 1° significato, l’apparenza vela, nasconde, o oscura la realtà delle cose, per cui la realtà è conoscibile soltanto andando al di là dell’apparenza o prescindendo da essa; secondo l’altro significato l’apparenza è ciò che manifesta o rivela la realtà stessa, sicché questa trova nell’apparenza il suo disvelamento.
In base al 1° significato conoscere significa liberarsi dell’apparenza; in base al 2° significato conoscere significa affidarsi all’apparenza.6
E’ evidente quindi che a seconda di quale significato intendiamo dare all’apparenza, il nostro movimento potrà essere o di esclusione indifferente dell’altro o di avvicinamento nel lasciarsi suggestionare, guidare, dall’apparenza.
Esempi dell’apparenza sono le banlieu della periferia parigina o marsigliese, ma anche i non luoghi dell’immigrato stagionale.
Il luogo dell’apparenza è lo stato in cui le differenze si avvicinano indifferenti e producono distanze o vicinanze a seconda dell’interesse reciproco degli interlocutori.
Quale mediazione è possibile nei luoghi dell’apparenza?
Una mediazione che permette la traduzione, quella dell’interpretariato, perché sia annullata (o coperta ) la differenza della lingua e tutto diventi traducibile, trasportabile da una cultura ad un’altra, in uno sforzo analogico di rendere possibile la co-esistenza nel senso della tolleranza.

3) Esiste poi lo spazio della negazione, tipico della situazione in evoluzione e in trasformazione. E’ lo spazio dei sans papier.
Se tu non sei cittadino, non esisti. Sei qui solo di passaggio, sei qui in quanto lavoratore, chiamato e autorizzato in quanto forza lavoro. Sei qui per partecipare ad uno sviluppo che è nostro e che non ti deve appartenere: noi prendiamo ciò che ci serve e in cambio ti “diamo” il nostro sviluppo.
E’ uno spazio episodico, temporaneo, lo spazio di una parentesi, all’interno della quale esiste l’apparenza, finito il periodo (che però potrebbe essere anche lo spazio di una vita), tu non esisti più. Per cui all’esterno del periodo tra parentesi, vige lo spazio della caoticità e dell’arrangiarsi. Quale mediazione è possibile nello spazio della negazione?
La mediazione solidale della rassicurazione, della carità, del volontariato; con i mille pericoli del nuovo colonialismo (poverino ti aiuto) ma anche della differenza pietosa che riesce a salvare con il bambino – cioè le differenze culturali - anche l’acqua sporca – cioè la prevaricazione politica di una politica verso l’integrazione che si inventa una religione e di fatto finisce per favorire la nascita e l’evoluzione di movimenti tipicamente fondamentalisti. Infatti le politiche comprensive, (a fin di bene) che vogliono decidere quali siano i bisogni dell’altro, solo perché lui è immigrato, inesistente, e quindi inconsapevole, e ha bisogno di conseguenza dell’opera illuminata di colui che in questa civiltà sa vedere al di là delle cose e immaginare per conto proprio di cosa lui abbia bisogno, finiscono per radicalizzare le differenze e creare l’orgogli nazionali anche là dove non ci sono.

L’Italia non ha ancora un modello di accoglienza. Non ha cioè scelto tra i modelli esistenti quale applicare di fronte al fenomeno immigrazione.
Da una parte non è detto che sia un male, dall’altra non possiamo neanche attendere oltre poiché la non scelta è comunque una scelta, forse proprio quella di lasciare alle realtà locali alle organizzazioni presenti sul territorio di darsi proprie strategie.
Il punto critico diventa però l’eventualità di un annullamento del malinteso.
Se il malinteso è, come abbiamo visto, lo spazio in cui calarsi per conoscer l’altro, appiattire questo spazio, neutralizzarlo, vuol dire o banalizzarlo, misconoscerlo,o far finta di non vederlo; in un certo senso là dove non mi interessano le differenze, nego l’altro; là dove le differenze devono essere relegate ad uno spazio chiuso non visibile, di nuovo appiattisco l’incontro, creo emarginazione e ristringo l’altro comprimendolo e provocando la sua esplosione; ma anche là dove vedo la sua funzione e non vedo la sua specificità di cittadino, non faccio altro che annientare l’incontro tra individui.
Là dove avvenisse l’annullamento del malinteso, inevitabilmente crescerebbe il conflitto, provocando l’effetto indesiderato, difensivo: “Non mi capisci? Meglio così almeno non pretendi che io sia uguale a te”7.
Là dove lo spazio-frontiera da percorrere e perlustrare viene ristretto, annullato, l’altro non esiste più e aumenta la probabilità dello scontro e del conflitto.
Da qui però arriviamo alle paure, alla confusione, ai conflitti

La mediazione possibile è la soluzione del conflitto, la sua prevenzione
Così come negli spazi del malinteso, anche noi ci troviamo a definire un nostro intervento; e a seconda dello spazio in cui ci troviamo, come operatori o come persone, ci sentiamo sospesi tra:
- il mediatore come facilitatore di accordi, come una specie di ambasciatore tra nuclei contrapposti;
- il mediatore come interprete, tra popoli che non riescono ad intendersi e che sentono la necessità di un intermediario traduttore (che sappiamo porta con sé il rischio di essere “traditore” come ogni traduttore );
- il mediatore come rassicuratore, come colui che oscilla da una parte all’altra, portatore di filosofie positive e di buoni propositi ma sostanzialmente all’interno di posizioni idealiste o idealizzate.

Il ruolo della mediazione culturale, invece, può essere quello di stare nello spazio del malinteso: entrare in quei luoghi, in quei movimenti, dimenticati dai servizi e dai non servizi, che nascono più o meno spontaneamente nelle città, nei servizi territoriali, nell’associazionismo, quelli che M.Augè ha definito “non luoghi”.
Questi sono gli spazi dove il malinteso prende forma e dove è quindi possibile sostare per conoscersi e riconoscersi.
Sostiene Jankèlèvitch8 che la soluzione del malinteso sta nella “riabilitazione della temporalità”, nel senso che solo utilizzando il tempo per prolungare l’incontro, per sostare in esso e attraversare la frontiera dell’alterità9, poiché soltanto il tempo permette di andare al di là dell’istante, dell’evento, per raggiungere una consapevolezza dell’incontro.
Ma qual è la rappresentazione di questa dimensione dell’incontro, e quale possibilità per le culture di interrogarsi a vicenda senza appiattire il malintesi e di conseguenza favorire il conflitto ?

Facciamo un’esemplificazione: la questione della legge sulla laicità in Francia10 meglio conosciuta come la legge sul velo, vedendone i pro e i contro.
La legge sulla laicità ed il Velo delle donne islamiche

Prendendo spunto dalla definizione che “la Repubblica francese si è costruita attorno al principio di laicità, (…) [ si definisce che ] La libertà di coscienza permette a ciascun cittadino di scegliere la propria vita spirituale e religiosa. L’uguaglianza dei diritti vieta ogni discriminazione o costrizione e allo stato di privilegiare questa o quella opzione”11. Di conseguenza la legge rinforza certi principi laici e interviene a controllare, scoraggiare, e dove necessario reprimere, l’ostentazione di simboli religiosi o di comportamenti che possano intaccare o ledere la laicità dello stato, ed il diritto di ciascun cittadino a fare le proprie scelte religiose e spirituali nel suo privato.
Di conseguenza la legge ha vietato la possibilità di ostentare “grandi segni religiosi, quali una grande croce, il velo o una kippa. Non sono considerati simboli di ostentazione della propria fede religiosa quelli discreti come ad esempio medaglie, piccole croci, stelle di David, mani di Fatima, o piccoli Corani” nei locali e nei servizi pubblici, come per esempio gli ospedali e le scuole.

La legge ha suscitato un’ampia discussione a tutti i livelli della società e, come tenterò di far vedere, non si è limitata alla Francia ma si è allargata a macchia d’olio in tutta Europa e non solo.

Questioni contro

Femminismo della responsabilità:
Il rischio della legge è che le ragazze espulse siano allontanate dalla scuola pubblica e si perda per sempre la possibilità di lavorare sulle loro coscienze: “non sarebbe preferibile accoglierle nella scuola pubblica e sostenerle attraverso il lavoro didattico fino a metterle in condizione di tener testa al loro ambiente e liberarsi dal velo”12.

Emancipazione
L’emancipazione si ottiene con la conquista dei propri diritti e non può essere imposta con l’umiliazione o la repressione. Non serve quindi erogare delle leggi che impongano l’emancipazione dall’alto, ma occorre invece favorire l’emancipazione favorendo la discussione e la crescita.

Educare o punire?
Gli integralisti impongono il velo: ma tutte quelle con il velo sono integraliste?
Le ragazze saranno le prime a subire i rigori della legge, mentre i “mandanti” rimangono dietro impuniti e non visti – anzi se ne avvantaggeranno diventando i soli interlocutori delle ragazze

La solitudine
“Una volta espulse queste ragazze saranno preda facile per i fondamentalisti.
Per lottare contro il terrorismo esiste una sola via: quella del sapere, della cultura, dell’istruzione”13
(Shirin Ebadi premio Nobel per la pace – Iran)

L’adolescente migrante
Il velo può rappresentare un’espressione reazionaria…. Ma anche una delle molteplici espressioni della differenziazione personale che fonda la singolarità di ciascuno, cioè il bisogno-desiderio di essere differenti senza umiliazione. Questo è particolarmente vero per gli adolescenti14 (a cui la proibizione nelle scuole si rivolge).
Bisogna qui tener presente l’importanza della dialettica tra le appartenenze (e i simboli ad esse legati) a riguardo della “filiazione”15 (il legame, sancito socialmente, tra un neonato e i suoi genitori), e l’“affiliazione” (intesa come il movimento individuale di andare verso l’appartenenza a delle radici anche familiari ma non solo): il gioco incrociato, spesso incoerente a volte paradossale, di simboli e appartenenze, svolge il ruolo di favorire l’individuazione nell’appartenenza familiare. Questa dinamica per l’adolescente migrante o figlio di migranti, assolve la funzione di mantenere viva la ricerca di sé tra le radici culturali, molteplici dell’ambiente, a cui cercano di assimilarsi e le radici culturali della famiglia, attraverso un equilibrio che è sempre vicino alla rottura.16

Entità del fenomeno
Nel dipartimento multiculturale della banlieu parigina di Seine-Saint Denis, prima del voto della legge, c’erano meno di 10 casi problematici di ragazze che portavano il velo a scuola17.
Quale sarà l’effetto della legge ? Non è che per opposizione (adolescenziale se si vuole o di individuazione politica) si avrà un effetto inverso a quello cercato, e quindi un’esplosione del velo?18


Questioni a favore

La laicità
“Tra il forte ed il debole, la libertà opprime e la legge libera19.
La laicità non è mai stata nemica della religione nella misura in cui questa si esprime come comportamenti spirituali e non rivendicano alcuna ingerenza sullo spazio pubblico.
Dobbiamo inoltre ammettere il fallimento della laicità “aperta”, di fronte a tanti episodi di intolleranza e di ingerenza sullo Stato da parte di minoranze20.

Il pericolo del comunitarismo
Il modello francese di assimilazione non deve essere messo in discussione pena la nascita di comunità separate, e di conseguenza il prodursi di effetti quali quelli messi in evidenza in Gran Bretagna.
“Alcuni provveditori hanno parlato di allievi raggruppati in base all’affinità religiosa nelle classi, con rischi di tensioni e di scontri che ne derivano”21
La legge, garantendo la laicità, permette il dialogo senza mettere in discussione il modello francese.

Molti studenti sono minorenni
Una bambina di 13 anni col velo che recita a memoria una sentenza del Consiglio Islamico offre un piccolo esempio di quello che può essere la libertà degli scolari.

La legge non è tutto
Un provvedimento legislativo non risolve tutto. Necessità del dialogo.
La scuola pubblica non nega le differenze; ci si preoccupa solo che la loro affermazione sia compatibile con l’universalità dei diritti e con la libertà di ognuno di definirsi e ridefinirsi senza vedersi imporre l’adesione e la fedeltà ad un gruppo

Conseguenze della promulgazione della legge (anche internazionali)
Se ci si rivolge ai segni religiosi allora questo vale anche per i segni Cattolici e Ebrei:
le prime ripercussioni alla legge francese si sono avute in Italia e in Spagna e in Germania:

Vaticano: “Non proibirei ad una musulmana di portare il velo, ma ancor meno consentirei a qualcuno di proibire la croce come simbolo pubblico di riconciliazione”22
Germania: questo provvedimento porterebbe a una separazione esagerata dello stato dalla chiesa; rischio della perdita di neutralità dello stato sulla religione.
La croce non è un simbolo di repressione invece il velo lo è per le musulmane.23
Rispetto alla comunità ebraica, la Germania ha visto di nuovo affacciarsi i sensi di colpa di un atto che potrebbe essere probabilmente vissuto come stigmatizzante.

Più in generale in questi stati si è rimesso in discussione il rapporto stato-chiesa:

Gran Bretagna: L’integrazione non richiede l’assimilazione. L’identità britannica abbraccia diverse nazionalità e tradizioni religiose……. La diversità fa parte della nostra forza. ( Comunicato del Foreign Office)24
J. Henley sul Guardian scrive: “La laicità è un concetto astratto, addirittura assurdo per chi è abituato alla nozione di multiculturalità britannica o americana”

Danimarca: “Dite quello che volete sul velo ma non sono a favore di una proibizione nazionale. E’ all’opposto del principio di libertà d’espressione”25

Spagna: Mostrare I simboli non è appropriato ma non può essere vietato26

Italia:“ Simboli dei valori che sono alla base della nostra identità, quindi non è ammissibile un azione contraria ne loro confronti”27.

Vaticano: Il Papa ha dichiarato: “sopprimerli in nome di un’interpretazione scorretta del principio di uguaglianza può diventare un fattore di instabilità e di conseguenza di conflitto”.

Bisogna inoltre ricordare che una legge simile a quella francese (almeno nella proibizione del velo a scuola) in Turchia, ha prodotto diverse reazioni. Infatti in Turchia, la legge proibisce di portare il foulard sia nelle scuole che nelle università, sia negli edifici pubblici.
Qui si assiste al caso delle ragazze di religione musulmana che portano delle parrucche sostitutive, che indossano prima di entrare a scuola, togliendosi il velo.
Ma la Turchia, proprio per questa legge, è stata accusata dalla Corte Europea di Giustizia, di violazione delle libertà individuali, e sarà di conseguenza condannata per questa legge che invece in Francia è stata appena approvata.

Conclusioni
E’ evidente da questa esemplificazione, che quando si interviene, dall’alto, sulla cultura degli altri in realtà si finisce per intervenire sempre anche sulla cultura nostra e su di noi direttamente.
In questo senso se pensiamo di “vedere” impugnando il cannocchiale di Carmine dalla parte larga ( a stringere cioè), rischiamo di cogliere solo un aspetto molto parziale dei fenomeni e dei conflitti.
Impossibile non contaminarsi a vicenda. “ Il malinteso tra le culture non significa che le culture non possono convivere, mescolarsi, trasformarsi per contiguità e influenze; significa il contrario: che l’identità è un gioco di malintesi, che i malintesi tra le culture sono la base dello scambio e della contiguità, che garantiscono che il gioco abbia lo spazio per essere fatto ad-agio.”28
Di conseguenza la soluzione non passa attraverso l’appiattimento dei malintesi (che genera invece conflitto o il radicalizzarsi delle differenze stesse), bensì attraverso il sostare (ed il tempo per sostare) nel malinteso, accettando la contaminazione nel modo più consapevole e responsabile possibile.
In questo senso ritorno all’idea del Mediatore come INTERFACCIA29, privilegiando la relazione rispetto all’accordo, il parlare il proprio idioma rispetto all’interpretariato, il riconoscere rispetto alla negazione, la reciprocità in cui entrambi le parti danno e ricevono nello scambio sociale.
In questo sforzo non possiamo più pensare ad una appartenenza ma alle molte appartenenze di ognuno, non più alle radici, come processo statico, ma come punto di partenza di un movimento, di un divenire.
In fondo facendosi INTERFACCIA, il mediatore sta nel flusso della comunicazione e danza con i protagonisti del confronto; e in questa dimensione si interroga, si confronta lui stesso, si scopre e si riconosce.


BIBLIOGRAFIA
  • AA.VV “Gli ordini dal caos”, Manifestolibri, Roma, 1991
  • Abbagnano N. “Dizionario di Filosofia” Utet, Torino, 1971
  • Beneduce R. “Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo” F.Angeli, Milano, 1998
  • Francini G. «L’incontro tra le culture. Tra conflitto e mediazione. L’interferenza utile dei mediatori culturali” in Mediazione Familiare Sistemica, AIMS, Torino, 2003
  • Jankèlèvitch V. “ Il non-so-che ed il quasi niente” Marietti, Genova, 1987
  • Jankèlèvitch V. “ La menzogna ed il malinteso” Raffaello Cortina Editore, 2000
  • La Cecla F. “Il Malinteso” Laterza, Bari, 2003
  • Moravia S. “ Dal soggetto alla relazione. Uomo conflitto, mediazione, in una prospettiva sistemica” in Maieutica, n°9, 1999
  • Moro M.R. “ Le voile des adolescentes “ in L’Autre, vol. 5, n°2, Le Pensèe sauvage, Grenoble, 2004
  • Taliani S “ Uomini alla deriva” in Minorigiustizia n°1/2000, F.Angeli Milano, 2000

NOTE

1 AA.VV. “Gli ordini del caos” Manifestolibri, Roma, 1991, pag. 17-18
2 Carmine Saccu è uno dei fondatori dell' Istituto di Terapia Familiare di Roma, attuale presidente della Scuola Romana di Psicoterapia Familiare, Presidente della Società Italiana di Terapia Familiare.
3 S. Moravia “Dal soggetto alla relazione. Uomo, conflitto, mediazione, in una prospettiva sistemica” in Maieutica n°9, 1999
4 V. Jankèlèvitch “ Il non-so-che ed il quasi niente” Marietti, Genova, 1987
5 F. La Cecla “ Il malinteso” Laterza, 2003, pag. 9
6 N.Abbagnano “Dizionario di Filosofia – Voce: Apparenza” UTET, Torino, 1971
7 F. La Cecla “ Il malinteso” Laterza, 2003
8 V. Jankèlèvitch “ La menzogna ed il malinteso” Raffello Cortina Editore, 2000
9 F. La Cecla “ Il malinteso” Laterza, 2003 pag. 139
10 La legge sulla laicità della Repubblica è stata ratificata in Francia nel Febbraio 2004, ed è frutto del lavoro di una Commissione di riflessione sull’applicazione del principio di laicità nella Repubblica, presieduta da Bernard Stasi (appunto Commissione Stasi). La legge fissa una serie di regole di comportamento per tutti i cittadini francesi, tesa a salvaguardare la laicità dello stato, ed il diritto di tutti i cittadini a tale laicità.
11 Dalla relazione finale della Commissione Stasi.
12 P. Tevanian (Doc. filosofia a Drancy –Seine Saint-Denis) da “ Una legge anitifemminista e antisociale” in Le Monde Diplomatique – Il Manifesto, Febbraio 2004 - pag. 6
13 S. Ebadi (Premio Nobel per la Pace – Iran) Afp- 19 Dicembre 2003
14 F.Gaspard; F.khosrokhavar “Le foulard et la rèpublique” La Dècouverte 1995
15 M. Boucebci “ Tra due rive “ in appendice a R. Beneduce “Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo ceolo”, F:Angeli, Milano, 1998
16 S. Taliani “Uomini alla deriva. Appunti su un’esperienza pilota di supporto psicologico con giovani detenuti maghrebini”; in Minori Giustizia n° 1/2000 Franco Angeli Milano pgg 35-54
17 dati provenienti da L’education Nationale
18 M.R. Moro “Le voile des adolescentes” in L’autre, Vol. 5, n°2, Le pensée sauvage, Grenoble, 2004 pagg. 181-186
19 Il curato Lacordaire a proposito delle leggi politiche.
20 H. Pena-Ruiz ( Filosofo, Istituti di Studi Politici Parigi- membro Commissione Stasi) da “Uguaglianza, leva dell’emancipazione” in Le Monde Diplomatique –Il Manifesto, Febbraio 2004, pag. 7
21 dalla relazione finale della Commissione Stasi
22 Ratzinger (capo della Congregazione per la dottrina della fede ) notizia Reuters, 5 Febbraio 2004
23 W. Thierse, (Presidente del Bundestag)
24 Associated Press, 18 Dicembre 2003
25 Ministro dell’Integrazione Bertel Haarder
26 P. Castello Ministra dell’Istruzione, da un’intervista su El Pais Dicembre 2003
27 C. A. Ciampi Presidente della Repubblica
28 F. La Cecla “ Il malinteso” Laterza, 2003 pag. 172
29 G. Francini “ L’incontro tra le culture. Tra conflitto e mediazione. L’interferenza utile dei mediatori culturali” in Mediazione Familiare Sistemica, n° 1, AIMS, Torino, 2003 pagg. 105-111

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