GIUSTIZIA RIPARATIVA E MEDIAZIONE PENALE MINORILE IN ITALIA

di Francesca Di Ciò Sociologo, ricercatore presso l’Istituto per la Ricerca Sociale di Milano, Promotore e componente dell’Ufficio per la Mediazione di Milano, Fondatore dell’Associazione Dike, Associazione per la Mediazione dei Conflitti. Per eventuali contatti fdicio@hsn.it


Premessa
Da ormai più di dieci anni assistiamo ad un progressivo sviluppo delle pratiche di mediazione che, nei diversi contesti della vita sociale, si stanno rilevando strumenti utili a fornire risposte e soluzioni a nuovi bisogni emergenti. Complessivamente sembra si stia diffondendo - forse ancor prima nell’ambito dei servizi o delle politiche sociali che nella cultura e nel contesto civile - la convinzione che i conflitti sociali di diversa origine e natura possano essere regolati anche attraverso un soggetto terzo, imparziale, legittimato dalle parti ed incaricato semplicemente di facilitare la comunicazione affinché queste stesse possano arrivare ad una soluzione condivisa della loro disputa. Questa modalità sembra raccogliere sempre più consenso e viene riconosciuta utile ed efficace nei più diversi ambiti sociali.
In ambito penale, anche in conseguenza delle nuove opportunità recentemente offerte alla mediazione ad esempio dalla normativa relativa alla competenza penale del giudice di pace (D.Lgs. 274/00), si respira un forte interesse verso tutte quelle modalità di gestione del conflitto che costituiscono un primo tentativo di promuovere e sperimentare la giustizia riparativa nel nostro paese. L’impressione è di assistere progressivamente ad una crescente attenzione verso lo sviluppo di questo nuovo paradigma che pur producendo ancora forti resistenze, in un periodo storico-politico nel quale si riaccendono anche logiche retributive e general-preventive, sembra guadagnare sempre più credito e consenso.
Così come l’ha definita Adolfo Ceretti la giustizia riparativa rappresenta “un paradigma di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo”1, e tutto ciò attribuendo al reato soprattutto il significato di un evento relazionale che primariamente provoca la rottura di aspettative sociali simbolicamente condivise.

In questa logica la mediazione in ambito penale rappresenta lo strumento privilegiato della giustizia riparativa, quel processo che propone alla vittima, al reo e alla comunità un’occasione di confronto sulle conseguenze e sugli effetti che un fatto delittuoso ha generato, nel quale, per dirlo con le parole di J. P. Bonafé-Schmitt, “una terza persona neutrale tenta, attraverso l’organizzazione di scambi tra le parti, di permettere ad esse di confrontare i propri punti di vista e di cercare una soluzione al conflitto che le oppone”2. In questa prospettiva il reato dunque non viene più considerato soltanto “un illecito commesso contro la società, o come un comportamento che incrina l'ordine costituito - e che richiede una pena da espiare -, bensì come una condotta intrinsecamente dannosa e offensiva, che può provocare alle vittime privazioni, sofferenze, dolore e persino la morte, e che richiede, da parte del reo, principalmente l'attivazione di forme di riparazione del danno provocato.3”

La mediazione penale minorile In Italia la giustizia riparativa e la mediazione penale hanno trovato un primo spazio di sperimentazione nell’ambito minorile; da circa dieci anni infatti grazie agli spazi offerti dal Dpr 448/88 (Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni) in alcune regioni del territorio nazionale si sono potute concretizzare alcune interessanti esperienze di mediazione tra minori autori di reato e parti offese.
Considerando alcuni recenti dati forniti dal Dipartimento Giustizia Minorile4 è possibile in questa sede giungere ad alcune riflessioni su aspetti organizzativi, tecnici e procedurali che emergono da queste esperienze e provare a definire quali problemi rimangono aperti e quali invece potrebbero essere gli scenari futuri in questo campo.
Le esperienze di mediazione attualmente operative sono distribuite in modo eterogeneo sul territorio nazionale: al nord troviamo Torino, Milano, Trento e Bolzano, al centro Roma e al sud e nelle isole, Bari, Catanzaro, Salerno e Cagliari ma molte altre strutture sono però in fase di progettazione o in fase di avvio e spesso in seguito a sperimentazioni promosse dagli Uffici di Servizio Sociale Minorenni del Ministero della Giustizia.
Ma quali sono le caratteristiche degli utenti in carico agli Uffici per la Mediazione e quali sono le procedure adottate nelle diverse strutture? Il monitoraggio fornito dal Dipartimento Giustizia Minorile fotografa la situazione italiana nell’anno 2002 fornendo alcuni interessanti spunti di riflessione soprattutto per quanto riguarda gli aspetti organizzativi e procedurali ma anche per quanto riguarda il carico di lavoro e le caratteristiche delle parti coinvolte in queste attività.

I dati relativi all’attività degli Uffici per la Mediazione nel corso del 2002 descrivono che nei dieci Uffici5 presi in esame sono state affrontate 321 situazioni relative a minori autori di reato a cui è stato proposto un percorso di mediazione. I minori coinvolti risultano dunque essere 321, ma in 201 casi il reato è stato compiuto con altri imputati, nella maggior parte dei casi (74% circa ) coimputati minorenni. Anche le parti lese risultano essere 321 di cui 294 privati cittadini e circa 27 rappresentanti di un ente pubblico o privato.
Per quanto riguarda le tipologie di reato relativi ai casi di mediazione affrontati i dati confermano come la mediazione sia utilizzata per diverse fattispecie di reato e anche di particolare gravità; tuttavia il reato di lesioni (semplici e aggravate) si conferma come quello che ricorre più frequentemente (39%), seguito dal reato di danneggiamento (12,1%), ingiuria (11,5%), di rapina (9,7%), furto (7,8%) e minacce (7,2%).

Inoltre è possibile precisare che il reato di lesioni si accompagna in diversi casi ad altri capi di imputazione, e prevalentemente ai reati di ingiuria e minaccia. Complessivamente è interessante confermare come i casi che approdano in mediazione siano prevalentemente (nel 66% dei casi) relativi a reati contro la persona, “mentre come noto le statistiche sui dati relativi ai minori denunciati segnalano come il reato quantitativamente prevalente sia quello contro il patrimonio (54% nel 2001)”6.
I dati relativi ai 321 fascicoli presi in esame, evidenziano poi come per quanto concerne gli autori di reato questi siano nel 81% dei casi di sesso maschile; mentre per quanto riguarda le parti offese, non è disponibile il dato sul sesso.
Venendo all’età delle parti, invece, il monitoraggio evidenzia che l’età degli autori di reato è compresa, per quasi il 50 % dei casi, tra i 16 e i 17 anni, per il 24% tra i 14 e i 15, mentre un 22% sono maggiorenni. L’età delle parti offese è, nel 35 % dei casi, rappresentata da persone di età compresa tra i 14 e i 17 anni; nel 20,7% dei casi da persone di età compresa tra i 18 e i 30 anni e nel 31% dei casi da persone di età compresa tra i 30 e i 70 anni. Solo il 4% dei casi sono rappresentati da vittime infraquattordicenni.
Per quanto riguarda la nazionalità, sono state realizzate mediazioni con autori di reato e vittime quasi esclusivamente di cittadinanza italiana, considerando che in soli 13 casi su 321 sono stati coinvolti ragazzi stranieri prevalentemente provenienti dai paesi del Nord Africa e dai paesi balcanici. Questo dato risulta ancora una volta significativo considerando che complessivamente tra la totalità dei minori autori di reato gli stranieri rappresentano il 22% dei denunciati e quasi il 50% dei presenti presso gli Istituti Penali Minorili7. I dati confermano dunque come la mediazione rappresenti ancora un percorso consentito a pochi anche se per quanto riguarda le mediazioni realizzate i dati disponibili descrivono un quadro confortante ed in particolare per quanto riguarda gli esiti delle mediazioni realizzate: tra le mediazioni avviate quelle concluse positivamente rappresentano l’86% dei casi.

Il percorso di mediazione
Vediamo qui di seguito quali sono attualmente le procedure adottate durante un percorso di mediazione. Per quanto riguarda i dati relativi ai soggetti invianti delle attività di mediazione, il quadro nazionale conferma che è il Pubblico Ministero la più frequente autorità inviante agli Uffici per la Mediazione (73% circa), seguito dal Giudice dell’Udienza Preliminare (17,13%) e dagli operatori dell’Ussm (5,6%). Il maggior numero di invii, infatti, avviene da parte delle Procure ai sensi degli artt. 9 Dpr 448/888 (79%) e raramente ai sensi dell’art. 5649 c.p.p.; mentre per una percentuale minore di casi (17%), l’invio avviene ai sensi dell’art. 28 e dell’art. 9 del Dpr 448/88 per volontà del Giudice dell’Udienza Preliminare.
Coerentemente con i criteri guida della minima offensività del processo sul minore e della rapida fuoriuscita del minore dal circuito penale, entrambi promossi dalle regole sul processo penale minorile del 1988, si conferma dunque che la mediazione viene proposta prevalentemente nella fase delle indagini preliminari, e comunque quasi mai oltre l’udienza preliminare.
Per quanto riguarda le modalità con le quali avvengono questi invii sembra ormai una prassi condivisa quella per cui prima di inviare un caso all’Ufficio per la Mediazione, il magistrato raccoglie il consenso del minore e dei suoi genitori nel corso dell’interrogatorio o dell’udienza e, se possibile, acquisisce anche il consenso della vittima o comunque la informa del successivo intervento dell’Ufficio per la Mediazione. “L’invio inoltre avviene solitamente previa ammissione di responsabilità dell’indagato/imputato resa nel corso dell’interrogatorio. I mediatori devono, infatti, poter intervenire “con la certezza ‘sostanziale’ che il fatto sussiste e che l’autore del reato se ne sia dichiarato responsabile perché solo a queste condizioni può operare nella costruzione del consenso all’incontro tra le parti10”.
Un’informazione inoltre interessante riguarda i tempi di queste procedure: al momento dell’invio il tempo trascorso dalla commissione del reato è risultato pari a circa un anno (380 giorni)11.
Il monitoraggio rileva poi un interessante informazione relativa alle parti lese: “le persone che hanno subito azioni violente dai minori imputati erano, nella maggior parte dei casi, da questi conosciute: su 321 minori segnalati, infatti 182 (pari al 56%) conoscevano la loro vittima”12. Il dato conferma una sensibilità dell’Autorità Giudiziaria in merito ai criteri di invio: in quanto inviando casi in cui il reato è stato commesso all’interno di una relazione pre-esistente o destinata a perdurare nel tempo, sembrano orientare le proprie scelte considerando soprattutto la dimensione relazionale del fatto, e le possibili ricadute del reato sulle parti e sulla comunità di appartenenza.
Per quanto riguarda il momento del primo contatto e dunque quella fase nella quale i mediatori provvedono a contattare le parti per acquisire il consenso a partecipare ad un incontro di mediazione, le modalità adottate dalle diverse esperienze italiane prese in esame appaiono relativamente omogenee. Innanzitutto nella maggior parte dei casi le parti vengono contattate contestualmente (nel 75% dei casi) in secondo luogo le modalità di contatto sembrano le stesse e spesso rappresentate dalla combinazione dell’utilizzo della lettera, della telefonata e del colloquio individuale. Nella maggior parte dei casi si utilizzano in successione tutti questi strumenti: si spediscono lettere rivolte al minore di reato, ai genitori, agli avvocati e alla persona offesa, contenenti l’invito al colloquio preliminare ed una brochure illustrativa dell’attività proposta; si contattano telefonicamente le parti invitandole ai colloqui preliminari ed infine si svolgono uno o più colloqui.
Per quanto riguarda i colloqui preliminari all’attività di mediazione vera e propria, la rilevazione descrive che sono stati realizzati almeno 134 colloqui con le parti offese e almeno 154 con gli autori di reato. Per quanto riguarda il numero di colloqui preliminari realizzati con ogni persona coinvolta è possibile affermare che, in alcune mediazioni, sono stati svolti più colloqui prima di raggiungere il consenso e la disponibilità all’incontro, ma che prevalentemente per ogni caso di mediazione si sono svolti uno o due colloqui con ciascuna parte.
Risulta inoltre statisticamente provato che, qualora si riesca a realizzare il colloquio, le possibilità di acquisire il consenso a partecipare alla mediazione sono sicuramente maggiori e, in particolare, per quanto riguarda le parti offese. Complessivamente la percentuale di vittime che ha fornito il suo consenso alla mediazione è stata pari al 68,3% dei casi mentre per i minori autori di reato la percentuale si è definita nel 73,2%.
La rilevazione nazionale conferma ancora una volta quanto il colloquio preliminare rappresenti un momento particolarmente delicato e critico nel quale spesso si giocano tutte le carte per giungere all’incontro di mediazione. Tuttavia occorre anche ricordare che il colloquio preliminare rappresenta un momento importante in sé, a prescindere dalla possibilità di svolgere o meno la mediazione, in quanto consente alla parte lesa di disporre dell’unico spazio di ascolto atto a esprimere i propri sentimenti.
Come precedentemente accennato per quanto riguarda le mediazioni realizzate i dati descrivono un quadro positivo: dei 321 casi inviati infatti, sono state portate a termine 133 mediazioni di cui 114 con esito positivo, 17 con esito negativo e 2 con esito incerto; se le percentuali di successo risultano dunque positive, i dati relativi al lavoro svolto evidenziano un utilizzo ancora limitato della mediazione13.
Per quanto riguarda invece le modalità con le quali vengono trasmessi gli esiti delle mediazioni realizzate, è ormai prassi condivisa tra le diverse esperienze italiane che, a mediazione avvenuta, venga inviato all’autorità giudiziaria un esito in ipotesi positivo, negativo, incerto o, qualora non si sia raggiunto il consenso degli interessati a partecipare all’incontro, di mediazione non effettuata. La modalità con la quale gestire questa comunicazione rappresenta però ancora uno degli argomenti più discussi e delicati nel dibattito sulle procedure o sviluppo della mediazione penale in Italia. Come noto, “nella fase finale del percorso di mediazione si presentano infatti due esigenze contrapposte: da un lato vi è quella dei mediatori di valutare e formalizzare in completa autonomia l’esito della mediazione, rispettando la confidenzialità preventivamente assicurata agli interessati e tutelando parallelamente il proprio ‘segreto professionale’, dall’altro quella dei magistrati di ricevere un esito che, nel rispetto di tale confidenzialità, contenga informazioni sufficientemente approfondite così da motivare adeguatamente le proprie scelte processuali”.14 Relativamente a questo aspetto, fino ad oggi, sembra vengano sperimentate modalità diverse che comunque tendono a garantire le esigenze sopra indicate: in alcune situazioni ad esempio i mediatori inviano al giudice una comunicazione sintetica dell’esito della mediazione, a volte resa comprensibile dalla segnalazione dei criteri15 con i quali si è giunti a tale esito o eventualmente corredata da “ulteriori informazioni”, rese con il consenso delle parti, volte a esplicitare i passaggi logici che hanno condotto a quella conclusione e le modalità con le quali è avvenuta o avverrà la riparazione simbolica. In altre situazioni invece si giunge alla redazione di un “esito partecipato” nel quale, oltre alla comunicazione sintetica dell’esito della mediazione, vengono inserite alcune “riflessioni” che le parti stesse hanno voluto comunicare. Tali riflessioni riguardano solitamente la loro percezione dei risultati raggiunti attraverso il percorso di mediazione.
Nei casi di mediazione “positiva indiretta”, invece, vengono allegate all’esito alcune comunicazioni scritte che le parti, con il supporto dei mediatori, hanno prodotto senza però mai giungere ad un incontro faccia a faccia.
Queste modalità fanno dunque sempre riferimento a quanto è accaduto in mediazione a prescindere dai contenuti, garantendo in questo modo la confidenzialità accordata alle parti. “In definitiva si fa riferimento al cambiamento del clima, delle modalità comunicative, alla ricostruzione condivisa dei fatti, ma soprattutto ad un avvenuto riconoscimento e alle modalità con le quali si è raggiunta una riparazione simbolica16”.
Per molte esperienze italiane (ad esempio Torino o Milano) “la riparazione simbolica rappresenta infatti un indicatore imprescindibile per la formulazione di un esito positivo della mediazione, in quanto sancisce formalmente l’avvenuto riconoscimento fra autore e vittima del reato, ma anche questo aspetto non sembra finora chiaro e condiviso tra tutte le esperienze. Nella rilevazione del Dipartimento si afferma ad esempio che per quanto riguarda la riparazione nell’ambito delle 133 mediazioni portate a termine siano stati attivati 57 percorsi di riparazione di cui sette svolti senza che le parti si fossero mai incontrate. Nel 38% dei casi sono infatti avvenuti percorsi di riparazione ed in particolare in 39 casi attività volte a risarcire la vittima in maniera diretta mentre in 18 casi sono state svolte attività socialmente utili non necessariamente attinenti alla tipologia del danno provocato17.
Questi dati evidenziano quanto sul concetto di riparazione sia ancora necessario riflettere definendo quando e come questa possa esplicitarsi. L’ufficio per la Mediazione di Milano, a titolo di esempio, ha definito la riparazione simbolica “ogni gesto volto a ricostruire positivamente la relazione fra le parti e capace di testimoniare l’avvenuto cambiamento nel rapporto interpersonale tra i soggetti”, considerando inoltre come questa non debba rappresentare una misura afflittiva e non debba essere necessariamente proporzionata alla gravità del reato; il gesto riparativo deve essere equo, non deve in alcun modo rappresentare il risultato di una “legale vendetta” voluta discrezionalmente dalla parte offesa, ma deve testimoniare, quanto più possibile, l’esito dell’incontro tra le parti affinché possa anche essere oggetto di valutazione ai fini della decisione giudiziale.18 I mediatori rimangono in questo quadro i garanti della definizione di una riparazione equa nonché della sua effettiva realizzazione.
La riparazione simbolica dunque può già rappresentarsi in mediazione attraverso scuse o altri gesti simbolicamente significativi per le parti o può tradursi in giornate di attività socialmente utili presso servizi sociali o culturali o comunque in attività che diano la possibilità all’autore di reato di riscattarsi, riparando laddove possibile, anche la comunità di appartenenza.
Diversa invece è la questione della risarcimento del danno che, almeno nell’esperienza di Milano, viene affrontata in un momento successivo alla mediazione nel quale i mediatori svolgono il ruolo di semplici facilitatori, offrendo lo spazio per lo svolgimento di un’attività di transazione realizzata sostanzialmente dai legali delle parti.

Aspetti professionali e organizzativi
L’analisi degli aspetti organizzativi e professionali degli Uffici per la Mediazione attualmente operativi rileva alcune questioni interessanti sui quali vale la pena soffermarsi. Un primo aspetto emerso dalla rilevazione del Ministero riguarda la composizione istituzionale degli Uffici per la Mediazione. Le esperienze finora attivate dimostrano come “l’adesione della Magistratura Minorile competente per distretto risulti ovviamente la condizione prioritaria per l’avvio e lo sviluppo di tali attività ma come anche l’azione di raccordo e la collaborazione interistituzionale assicurino il necessario sostegno all’operatività garantendo allo stesso tempo un apporto tecnico multidisciplinare e soprattutto dando visibilità e concretezza alla titolarità dell’intervento della mediazione penale”.
In questo quadro il protocollo di intesa o l’accordo di programma risultano gli strumenti maggiormente utilizzati, e forse più efficaci, “per disciplinare gli impegni e le modalità di attuazione della mediazione tra le parti coinvolte”. Attualmente ne sono stati stipulati 9 e diversi sono in via di definizione. Tra i componenti di tali Protocolli risultano pressoché sempre presenti i Centri per la Giustizia Minorile, i Tribunali per i Minorenni, le Procure della Repubblica presso i Tribunali per i minorenni, gli Enti Locali ed in particolare gli Assessorati ai Servizi Sociali, le Province e più raramente le Regioni e le Aziende Sanitarie19.
In questo quadro interistituzionale viene anche sottolineato come la disponibilità di una sede autonoma sembri rappresentare un importante fattore organizzativo nonché di efficacia di queste attività in quanto “rende possibile una rappresentazione della mediazione penale come servizio trasversale rispetto alle istituzioni competenti. Inoltre la raggiungibilità incide sulla sua reale fruibilità”20.
Per quanto riguarda la formazione degli operatori infine, come noto esistono vari modelli e diverse tecniche di mediazione che a seconda del contesto in cui sono applicate fanno emergere l’aspetto negoziale oppure quello del riconoscimento e dell’incontro tra le persone coinvolte nel conflitto21.
La maggior parte degli Uffici per la Mediazione in Italia sembrano ispirarsi, seppur con alcune differenze, a quel modello di mediazione volto alla trasformazione del conflitto attraverso l’incontro con l’altro, più centrato su dimensioni relazionali, emotive ed umane. La rilevazione del Dipartimento mette in luce, infatti, come l’impostazione teorica degli Uffici per la Mediazione aderisca in prevalenza al modello umanistico del Centre de Médiation et de Formation à la Médiation di Parigi presieduto da Jacqueline Morineau22. Tale modello formativo è stato seguito a Torino, Milano, Roma, Bari, Catanzaro, in parte a Salerno ed è attualmente promosso anche da altre associazioni italiane come l’Associazione Dike che ha integrato il “modello Morineau” con altre tecniche e modelli di mediazione in modo di fornire una conoscenza teorica più approfondita e un ampio quadro delle metodologie più accreditate in campo internazionale.
La formazione dei mediatori consiste solitamente in un percorso di 160-200 ore nel quale l’apprendimento delle tecniche di mediazione si svolge attraverso la partecipazione attiva e il coinvolgimento diretto in role playing, durante i quali viene prestata particolare attenzione allo sviluppo delle tecniche di ascolto e di intervento nella relazione fra persone in conflitto a seguito di un fatto-reato, lavorando sulla comunicazione, sulla facilitazione del dialogo fra le parti e sulle modalità di riparazione. L’iter formativo prosegue spesso in itinere assumendo la valenza di supervisione dei casi e delle modalità operative, sia attraverso stage condotti da formatori esterni, sia attraverso periodici incontri tra i mediatori.

Osservazioni conclusive
Considerando quanto fin qui rilevato sull’attuale sviluppo delle esperienze di mediazione penale minorile, risulta importante provare a definire quali problemi rimangono aperti e quali potrebbero essere gli scenari futuri, evidenziando da una lato gli aspetti operativi e procedurali e dall’altro quelli organizzativo-professionali relativi a questo innovativo settore di intervento.
Per quanto riguarda gli aspetti più prettamente operativi risulta confortante rilevare una certa omogeneità nelle procedure adottate dai diversi uffici; risulta tuttavia fondamentale che tali esperienze adeguino le proprie procedure alle indicazioni internazionali più recenti e, in particolare, alla Raccomandazione N° R(99)19 del Consiglio d’Europa relativa alla mediazione in materia penale e alla “Dichiarazione dei Principi Base per l’introduzione della Giustizia Riparativa in campo penale” delle Nazioni Unite (Vienna, aprile 2000)23 anche in prospettiva di giungere alla definizione di linee guida nazionali in armonia con tali documenti. Nelle indicazioni internazionali viene, per esempio esplicitato che i programmi di giustizia riparativa dovrebbero essere disponibili a tutti i livelli del processo penale (pre-processuale e processuale) ma anche nella fase esecutiva della pena; che alla giustizia riparativa e alla mediazione si dovrebbe ricorrere solo con il consenso libero e volontario delle parti; che tutte le parti dovrebbero ammettere i fatti fondamentali che concorrono a delineare il tipo e l’intensità del conflitto quale condizione imprescindibile per partecipare a un percorso di mediazione riparazione e che infine la partecipazione a una procedura riparativa e di mediazione non dovrebbe essere usata quale prova di ammissione e di colpevolezza in procedimenti penali successivi.
In Italia rimangono invece alcune questioni operative sulle quali occorrerebbe un confronto più approfondito ed in particolare quelle relative ai criteri e alle modalità per l’invio dei casi, quelle relative all’incidenza e l’effettività dell’esito della mediazione sul processo e quelle relative alle modalità e ai criteri di valutazione dell’esito dei casi trattati.
Per quanto riguarda, invece, gli aspetti più organizzativi e professionali emergono con forza due questioni: la qualificazione/formazione dei mediatori e l’amministrazione, il finanziamento e la definizione dei programmi di giustizia riparativa e di mediazione.
Per quanto riguarda il primo aspetto, pur considerando positivamente l’adozione pressoché totale al modello umanistico di mediazione, appare ormai necessario giungere, prima o poi, a un vero e proprio codice deontologico dei mediatori in ambito penale e sociale anche al fine di vedere garantita un’adeguata formazione degli operatori a prescindere dalla loro formazione di base. Inoltre coerentemente con quanto avviene in altri paesi, occorrerebbe iniziare a ragionare sull’opportunità di aprire queste attività al mondo del volontariato e di riflettere sulla dimensione organizzativa di questi uffici caratterizzati da un’alta, ma necessaria, flessibilità nei tempi e nelle procedure che spesso mal si sposa con le caratteristiche e i tempi dei servizi pubblici in genere. Occorre, infatti, tener presente che in diverse esperienze i mediatori si recano sul territorio, sia per svolgere i colloqui in particolare con le vittime di reato che per svolgere le attività di mediazione, contando sulla disponibilità logistica dei servizi territoriali; inoltre molte mediazioni vengno realizzate nei giorni festivi.
Per quanto riguarda invece l’amministrazione e la definizione delle funzioni di questi Uffici risulta oggi fondamentale considerare le nuove opportunità di sviluppo offerte alla giustizia riparativa, collocare queste esperienze all’interno dei nuovi assetti delle politiche sociali e riflettere sull’opportunità di un superamento della mediazione dall’ambito esclusivamente minorile.
La Giustizia riparativa in Italia, come evidenziato anche dai lavori della Commissione Ministeriale su “Mediazione penale e giustizia riparativa”24 sta, infatti, attraversando un periodo di potenziale cambiamento: le esperienze di mediazione, finanziate finora prevalentemente con i fondi della legge 285/97, potrebbero rivolgersi al mondo adulto nel quadro della competenza penale del giudice di pace (D.Lgs. 274/00), nell’esecuzione penale esterna (in particolare nell’affidamento in prova al servizio sociale) e nell’attenzione alla riparazione prevista dal nuovo Regolamento di attuazione dell’O.p. (art. 27 Dpr 230/00); inoltre si potrebbe dedicare maggiore attenzione alle vittime di reato attraverso forme di supporto a prescindere dalle attività di mediazione.
Per garantire l’evoluzione degli Uffici per la Mediazione Penale Minorile all’interno di strutture rivolte anche al mondo adulto occorre oggi fare riferimento ad altre fonti di finanziamento e giungere alla costruzione di accordi di programma più allargati, accordi che possano rappresentare l’effettiva territorialità di competenza di queste strutture che spesso raggiunge la dimensione regionale, perseguendo l’obiettivo di promuovere un nuovo modello di giustizia riparativa che, anche sulla base di quanto realizzato in ambito minorile, possa rivolgersi a tutta la popolazione in collaborazione con tutti i servizi della giustizia e del territorio. In questa prospettiva, risulta fondamentale che gli Uffici per la Mediazione possano comunque mantenere sul fronte istituzionale quella dimensione trasversale e pubblica che garantisce loro autorevolezza e, al contempo, permette a queste strutture di continuare ad essere riconosciute per la propria autonomia e neutralità, rimanendo fuori da qualsiasi connotazione, sia essa vittimo o reo-centrica, o espressione di politiche di controllo e di sicurezza.

BIBLIOGRAFIA
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  • Ceretti A., Di Ciò F., Mannozzi G. (2001), “Giustizia riparativa e mediazione: esperienze e pratiche a confronto”, in Scaparro F. (a cura di), Il coraggio di mediare. Contesti, parodie e pratiche di risoluzioni alternative alle controversie, Guerini & Associati, Milano.
  • Di Ciò F. “Lo sviluppo della mediazione penale minorile in Italia” in Prospettive Sociali e Sanitarie n° 5-6/2004.
  • Di Ciò F. (1998), “Un modello ‘mite’ di giustizia: la mediazione penale minorile”, Prospettive Sociali e Sanitarie, 4, p. 6.
  • Direzione Generale per gli interventi di giustizia minorile e l’attuazione dei provvedimenti giudiziari, Dipartimento Giustizia Minorile, “Rilevazione sulle attività di mediazione penale minorile per l’anno 2002”.
  • Mazzucato C. (1999), “L’esperienza dell’Ufficio per la Mediazione di Milano”, in Ufficio Centrale Giustizia Minorile (a cura di), La Mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive, Angeli, Milano.

NOTE

1 Il presente contributo contiene alcune riflessioni contenute in due articoli: uno pubblicato da chi scrive con Adolfo Ceretti (Professore Associato di Criminologia, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Milano-Bicocca, Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione di Milano) e con Grazia Mannozzi (Professore Associato di Diritto Penale Commerciale nell’Università dell’Insubria-Como), in Scaparro F. (a cura di), Il coraggio di mediare, Guerini Editore, 2001 e uno pubblicato su Prospettive Sociali e Sanitarie n° 5-6/2004.
2 Ceretti A. DI Ciò F. Giustizia riparativa e mediazione penale a Milano un’indagine quantitativa e qualitativa estratto da Rassegna penitenziaria e criminologia Fascicolo 3 – Settembre – Dicembre 2002, Istituto poligrafico e Zecca dello stato S.P.A Roma 2003 P. 101.
3 Bonafé-Schmitt J.P., La médiation: une justice douce, Syros Alternatives, Paris, 1992, p. 16. Pisapia G.V., Antonucci D., La sfida della mediazione, Cedam, Padova, 1997, p. 64.
4 Ceretti A. DI Ciò F op. cit. p.101
5 Ci si riferisce al documento relativo alla “Rilevazione sulle attività di mediazione penale minorile per l’anno 2002” realizzato dalla Direzione Generale per gli interventi di giustizia minorile e l’attuazione dei provvedimenti giudiziari, Dipartimento Giustizia Minorile, trasmesso nel dicembre 2003.
6 Ci si riferisce ai dati forniti dagli uffici di Torino, Milano, Trento, Bolzano Venezia, Bari, Catanzaro, Salerno Palermo e Cagliari.
“Rilevazione sulle attività di mediazione penale minorile per l’anno 2002”, realizzata dalla Direzione Generale per gli interventi di giustizia minorile e l’attuazione dei provvedimenti giudiziari, Dipartimento Giustizia Minorile, trasmesso nel dicembre 2003, p. 20.
7 Dipartimento Giustizia Minorile, 2003, p. 24.
8 Si ricorda che l’art. 9 consente al Pubblico Ministero e/o al giudice di acquisire informazioni utili a valutare la rilevanza del fatto e la personalità dell’indagato o dell’imputato, al fine di accertarne l’imputabilità e il grado di responsabilità anche attraverso il parere di esperti. In breve, la concezione della personalità sottesa a questa norma rivela che le carenze e gli squilibri del giovane vanno intesi direttamente come sfide, rischi, problemi operativi per il giudice e i servizi. L’autorità giudiziaria promuove la mediazione nella fase del processo ritenuta più idonea, e con tutte le cautele e la discrezione richieste dal caso. Concepita in questi termini, la procedura di cui all’art. 9 soddisfa un’esigenza particolarmente sentita da chi opera nel campo della mediazione, vale a dire la tempestività della risposta alla situazione di disagio che il conflitto ha creato.
9 L’art. 564 c.p.p., oggi abrogato in seguito alla riforma del Giudice Unico e sostituito dall’art. 555 c.p.p. offriva un’ulteriore opportunità alla mediazione, questa volta, però, destinata alla giustizia penale degli adulti. In particolare l’art. 564 attribuiva al Pubblico Ministero la facoltà, delegabile alla polizia giudiziaria, di tentare la conciliazione tra querelante e querelato. L’interesse per l’art. 564 c.p.p. derivava principalmente dal fatto che tale norma consentiva di “…coprire una gamma significativa di reati tipicamente minorili, quali i danneggiamenti e le lesioni personali lievi”. Si trattava, cioè, di una sorta di estensione al diritto penale degli adulti, ispirata esclusivamente dalle peculiarità oggettive delle fattispecie delittuose punibili a querela, della possibilità di avvalersi di una modalità (ri)conciliativa di soluzione del conflitto. Ora il nuovo art. 555 c.p.p. rende obbligatorio tale tentativo di conciliazione, modificandone però l’attore istituzionale: non più il Pubblico Ministero in quanto parte processuale, bensì il giudice.Cfr. Ceretti, Di Ciò, Mannozzi, 2001, p. 333.
10 Cfr. Ceretti, Di Ciò, Mannozzi, 2001, p. 336.
11 Dipartimento Giustizia Minorile, 2003, p. 27.
12 Dipartimento Giustizia Minorile, 2003, p. 24.
13 Le esperienze più consolidate (ci si riferisce agli Uffici di Torino, Milano, Bari, e le esperienze di Catanzaro e Venezia) hanno portato a termine, in un anno di attività, da un massimo di 36 mediazioni ad un minimo 13. Considerando che l’invio avviene pressoché sempre dall’Autorità Giudiziaria questi dati confermano come queste esperienze risultino purtroppo ancora sotto utilizzate.
14 Cfr. Ceretti, Di Ciò, Mannozzi, 2001, p. 341.
15 Tendenzialmente i criteri relativi ad un esito positivo di una mediazione riguardano: la significativa riduzione del conflitto, il raggiungimento di una riparazione simbolica e/o materiale, il raggiungimento dei una comunicazione efficace tra le parti, il raggiungimento di una condivisione di contenuti, il raggiungimento di un reciproco riconoscimento o il ritiro della querela.
16 Cfr. Ceretti, Di Ciò Mannozzi, 2001 p. 342.
17 Dipartimento Giustizia Minorile, 2003 p. 31.
18 Bouchard, 1999, p. 209.
19 Si afferma inoltre che: “Un elemento che incide sull’impianto organizzativo è inoltre quello legato all’a competenza degli uffici di mediazione all’ambito esclusivamente penale o all’ambito penale e civile. Di questo ultimo tipo sono le sperimentazioni avviate a Bari,Cagliari,Foggia e Catanzaro dove l’estensione all’interno dell’ambito civile comporta certamente la messa a disposizione di maggiori risorse da parte della regione e degli Enti Locali per assicurare capacità professionali ai due settori essendo l’intervento del personale della Giustizia minorile riferito esclusivamente all’area penale”. Cfr. Dipartimento Giustizia minorile, 2003, p. 5.
20 Dipartimento Giustizia Minorile, 2003, p. 6.
21 Cfr. Ceretti, Di Ciò, Mannozzi, 2001, p. 338.
22 Questo modello prevede che le mediazioni vengano gestite da un’équipe di mediatori. Le esperienze italiane sembrano adottare finora questo modello considerando che in più del 50% dei casi i mediatori presenti in una seduta di mediazione sono due mentre nel 25% dei casi sono tre.
23 Cfr. Ceretti, Di Ciò, Mannozzi, 2001, p. 353.
24 Parte dei lavori della commissione sono consultabili sul sito www.giustizia.it pianeta carcere.

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