L’IDENTITA’ INCERTA DELLA MEDIAZIONE


di Paola Stradoni Direttore didattico del Centro Studi Eteropoiesi -Torino, socio fondatore AIMS stradoni@eteropoiesi.it


Nell’ampio orizzonte di studi e analisi sui fenomeni organizzativi e sulle modalità con cui i conflitti maturano al loro interno, sulla loro funzione per l’organizzazione stessa, dove si viene a situare il mediatore, qual è concretamente il suo spazio operativo?
Le idee sull’organizzazione che come attori, osservatori, interpreti, coltiviamo, sono marcate dalle esperienze e dai legami che ciascuno riesce a stabilire e sviluppare con l’organizzazione o le organizzazioni di cui fa parte. Ciò che ciascuno sa dell’organizzazione costituisce un presupposto, una premessa concettuale, un punto di partenza necessario per conoscere l’organizzazione e per gestire comportamenti e scelte. Quindi la limitatezza della conoscenza come punto di partenza reale, storico, da cui ciascuno prende inevitabilmente le mosse per confrontarsi costruttivamente con altri punti di vista. Assumiamo con Gadamer (1983 pag.312) l’idea che la conoscenza si sviluppa dalla limitatezza, dai pregiudizi che “costituiscono la direzione iniziale di tutta la nostra capacità di esperienza…. sono predisposizioni della nostra apertura verso il mondo”.
Pertanto il percorso di conoscenza del contesto organizzativo si configura come un percorso impegnativo che non viene solitamente intrapreso né incentivato da chi lavora all’interno dell’organizzazione.
Le idee dei singoli, le metafore o micrometafore diventano principi informatori dell’agire senza che le persone ne abbiano necessariamente consapevolezza. I conflitti possono diventare “comportamenti da asilo infantile“ o “pare di vivere come sotto le bombe, se non sei qui a difenderti… possono portarti via anche la sedia” fino a pensare “ognuno per sé e Dio per tutti”.
Le metafore, come ben sappiamo, implicano un modo di pensare, esplicitano risonanze e connotazioni di significato evocativo, stanno alla base del modo in cui noi comprendiamo il mondo e nel contempo influenzano in modo determinante il nostro modo di pensare e il nostro modo di operare quotidiano.
Anche se non ne siamo consapevoli, ciascuno di noi nei confronti della cultura organizzativa è al contempo fruitore, creatore di senso, di valori e di modelli di comportamento.
Può accadere che il quadro culturale dell’organizzazione finisca per avere una propria autonomia, al di là dello scorrere del tempo, al di là della stessa collocazione ambientale.
Ne è un esempio la struttura sanitaria intesa come impresa. Il passaggio da un modello culturale di tipo professionale ad un modello imprenditoriale non è stato indolore per tutti i livelli gerarchici, non solo quelli di guida, ma anche per i livelli operativi. L’operatore, pur riconoscendo la complessità e l’articolazione dell’organizzazione, rispetto al senso e ai valori si vive come dentro a schemi prepensati ed entra in un conflitto di tipo valoriale fra la struttura di pensiero che lo ha portato a fare la sua scelta professionale e gli obiettivi dell’impresa. “Se ciò che conta è la quantità, come posso dedicare agli utenti/clienti il tempo necessario per aiutarli a risolvere il problema che mi portano?” “Se tutto è previsto da un protocollo, dove si colloca lo spazio del mio pensiero creativo?”
Questa modalità di proporre il cambiamento lascia aperti conflitti sotterranei che faranno sentire nel tempo la loro rilevanza.
L’operatore finisce di viversi come esecutore, modificando l’immagine che ha di sé come professionista. Questo avrà un grosso impatto anche sul suo operare concreto.
La storia, le posizioni ideologiche, i miti di cui si è persa l’origine hanno bisogno di essere rivisitati, riconosciuti per dare fondamento alla visione dell’organizzazione proprio nei momenti più impegnativi di cambiamento.
Sappiamo come i momenti di grandi cambiamenti siano i più delicati per l’organizzazione combattuta da forze opposte, le une che la spingono verso nuovi modelli operativi le altre che cercano di salvare la continuità e l’identità di gruppo.
Quando il cambiamento culturale viene proposto dai vertici dell’organizzazione sotto la spinta della necessità concreta di realizzare modificazioni, la maggior parte degli operatori rischia di essere relegata nel ruolo di compratore compiacente ma anche inerte di un prodotto per il quale può avere una curiosità iniziale, ma concretamente appare poco interessato a entrare in merito, poco desideroso di assumere iniziative di modificazione o di rielaborazione di modelli di comportamento o di ruoli. Non ci si può sorprendere, a questo punto, se un collaboratore compila il follow up del protocollo in funzione delle aspettative dell’organizzazione piuttosto che sui dati di realtà, ovvero su come concretamente ha fornito quella determinata prestazione.
L’adesione passiva a nuove proposte nasconde, di fatto, un conflitto che, se non viene riconosciuto e adeguatamente amministrato, fa sentire nel tempo il suo potere distruttivo.
Ottenere la cooperazione nella fase di trasformazione organizzativa può richiedere percorsi di apprendimento che vanno nella direzione opposta a quella spinta che vuole cambiamenti rapidi fortemente rivolti alla soluzione di problemi concreti. Ottenere una nuova modalità di raccolta dati, ad esempio, richiede al massimo una giornata di formazione, terminata la quale, il collaboratore si sentirà spinto verso un livellamento quindi verso una direzione esattamente opposta a quella richiesta dai presupposti di collaborazione, che prevedono come fondamentale la valorizzazione delle risorse ovvero la possibilità di ognuno di poter esprimere il proprio punto di vista criptico a partire dall’esperienza.
Occorrerà, quindi, aprire la strada che porti a legittimare l’irrompere degli aspetti emotivi e irrazionali, a sopportare l’incertezza e l’interrogarsi. Questo permette di mettere fruttuosamente in relazione scelte tecniche e funzionali con il mondo delle emozioni e dei significati e del senso e porta a ricercare le logiche che sostengono rallentamenti, conflitti e disordini organizzativi.
Data la caratteristica dei conflitti che si muovono sotterranei rispetto ad una facciata di apparente omogeneità di fronte alle decisioni manageriali, in che modo si può pensare la mediazione in quanto percorso strutturato verso l’evoluzione positiva dei sistemi in conflitto?

Mediazione come percorso evolutivo

La mediazione può configurarsi come un lungo processo evolutivo che consente di evidenziare le polarità in gioco e portarle a dialogare al fine di traghettare l’organizzazione verso nuove espressioni del proprio operare mantenendo intatta la cornice organizzativa oppure verso una riorganizzazione della struttura aziendale che porta con sé nuove metafore organizzative.
Nella prima situazione, quando non è la cornice organizzativa ad essere attivata per un cambiamento, lavorare sui conflitti rappresenta una precisa scelta culturale, ovvero pensare al conflitto come risorsa non come ostacolo.
In una società basata sulla distinzione fra emozione e ragione e fondata sul dominio indiscusso della razionalità e dell’efficienza, porre attenzione agli aspetti emotivi rappresenta un pericolo. Se interpretiamo le emozioni come reazioni dei singoli agli stimoli ambientali o come un segnale che ci informa sulla caratteristiche delle persone e non come segnali di sofferenza organizzativa, effettivamente la conoscenza che ne ricaviamo potrà condurci a diagnosi sui singoli ma non alla conoscenza dell’organizzazione. Per non cadere in questa scelta epistemologica il primo passo da compiere si configura nel mettere in discussione il senso che le emozioni assumono nel contesto organizzativo. Se sono fenomeni circoscrivibili al mondo interno dei singoli, l’organizzazione non se ne deve occupare, al contrario se le emozioni sono “i segni esteriori di precisi e complessi algoritmi” organizzativi (Bateson 1976), senza il loro contributo non si può giungere ad una conoscenza approfondita e complessa dei giochi relazionali e dei conflitti che impregnano un’organizzazione. In questa luce, le emozioni propongono e definiscono le contingenze dei reciproci rapporti, non ci informano su cosa guardiamo ma sulle relazioni tra i vari sottosistemi, tra i vari sottosistemi e l’ambiente, quindi sul come essi siano dinamicamente impegnati a costruire i contesti di cui sono parte. La svogliatezza del professionista nel compilare la cartella dei dati epidemiologici diviene la spia che evidenzia uno scollamento fra le decisioni del management, coerenti con la visione epistemologica dell’azienda, e le scelte operative del collaboratore che trova seminata di ostacoli la via per fare arrivare in alto la sua voce.
Quando in una riunione di dirigenti di aziende sanitarie o sociali si registrano affermazioni quali: “Il budget ha ormai la priorità rispetto ad ogni altra esigenza” oppure “si fa solo a costo zero” ci troviamo di fronte a strutture narrative che scotomizzano una delle due polarità in gioco all’interno dell’organizzazione. Ci si muove in un mondo in cui l’unico vero soggetto è chi decide, non chi collabora. In questa situazione evidenziare il conflitto è minare alla base questa metafora organizzativa: l’azienda come computer in cui è indice di efficienza l’adesione agli algoritmi.
Il manager che fa la precisa scelta culturale di valorizzare il conflitto quale strumento di conoscenza si troverà a far emergere le polarità non solo nel qui ed ora, ma anche fra la storia del servizio, quindi un passato di esperienze condivise e la attuale mission dell’azienda. E questo lavoro non può essere fatto che da una posizione interna all’organizzazione.
Nella seconda situazione, quando i conflitti esplicitano l’esigenza di cornici diverse, di nuovi modelli organizzativi allora un percorso mediativo strutturato diventa essenziale.
All’interno di una mediazione strutturata, infatti, è possibile separare le risorse senza impoverire i vari sottosistemi o senza sacrificare qualcuno degli attori. Poiché queste situazioni comportano livelli di sofferenza personale e organizzativa molto alti, è comprensibile come raramente si attivino risorse interne al sistema. Anche se le difficoltà vengono riconosciute e sofferte, il sistema resta come imbrigliato in una sorta di ragnatela emotiva che impedisce anche una richiesta di aiuto esterno. Si accompagna a questo anche il timore di aggiungere variabili che possono complicare ulteriormente. Quindi, pur intravedendosi l’utilità di un mediatore esterno, che aiuti l’organizzazione nel suo processo di differenziazione in sottosistemi con relativa autonomia, la cultura delle organizzazioni non prevede ancora, come necessaria, una richiesta formale di questo tipo.

La Posizione interna

Una prima riflessione viene quando è in primo piano la professione del dirigente che si trova all’interno dei conflitti e contemporaneamente gli viene chiesto dalla sua stessa posizione di affrontarli e risolverli. Questa è una tipica situazione paradossale di confusione di cornici in quanto il dirigente è contemporaneamente parte e super partes, confliggente e mediatore. Per l’azienda il suo compito è far quadrare il bilancio e quindi risparmiare, ma contemporaneamente, come leader, egli deve ottenere da suoi collaboratori il massimo della cooperazione in funzione dell’efficacia e dell’efficienza.
Quali strade può percorrere il dirigente per far evolvere il conflitto valorizzando la sua posizione ambigua?
Deve lavorare a tutti i livelli perché le due funzioni che si trova a svolgere vengano percepite come distinte.
Deve esplicitare da un lato la sua posizione super partes e dall’altra dare voce alla sua posizione di parte senza mai confonderle. “Parlando come azienda non posso tacere che il budget è intoccabile…. Parlando come leader di un gruppo che vuole raggiungere gli obiettivi attraverso la collaborazione posso affermare che il budget è intoccabile ma anche le vostre esigenze professionali sono intoccabili. Il fatto che le due ci appaiano contrapposte, non significa che sia impossibile cooperare se noi decidiamo di farlo”.
Questo è l’opening di una mediazione di cooperazione che parte dal presupposto di valorizzare le polarità apparentemente inconciliabili (Busso, 2001).
La mediazione di cooperazione è, di fatto, un percorso che, favorendo l’esplicitazione delle differenti posizioni come risorsa per l’insieme organizzativo, guida gli attori alla ricerca di una cornice comune che li correli in relazione di complementarietà, di reciproca utilità.
Questa rivoluzione culturale, che ai mediatori può apparire scontata, di fatto non è bagaglio di tutte le realtà organizzative. Il verbo integrare, nel migliore dei casi, si accompagna ad una emozione di spiccata ambivalenza. Se integrare ha come obiettivo risparmiare, chi dei due dovrà perdere di più? Per costruire una cornice che favorisca l’integrazione, il cammino è spesso molto lungo e richiede un lavoro tenace sia sulle relazioni sia sui processi costruttori di senso. L’obiettivo è quello di consentire agli individui e ai gruppi di passare da una visione in cui il conflitto è l’unica scelta possibile alla considerazione che il conflitto è uno svantaggio per entrambe le polarità, e lavorare fino alla condivisione dell’idea che abbiamo bisogno gli uni degli altri per cooperare. Dall’interdipendenza all’integrazione il passaggio appare breve ma non è facilmente raggiungibile.
Se si tiene in conto che l’istituzione, attraverso i gruppi che lo caratterizzano, è soprattutto un apparato di produzione di elementi affettivo- emotivi, si può affermare che anch’essa gode delle caratteristiche di una mente, in senso batesoniano, in quanto aggregato di parti o componenti interagenti che funziona per differenze e trasformate di differenza. Di conseguenza, oltre a precisi momenti di mediazione di cooperazione, occorre un lavoro sulla cultura organizzativa.
Quindi ogni riunione, ogni occasione formativa potrà essere sfruttata per:
1° mettere in luce le differenze, e in modo particolare le contrapposizioni,
2° evidenziare ciò che correla gli opposti.
I contatti personali, come ad esempio il momento di valutazione professionale o quello in cui si consegna l’obiettivo annuale, non sarà solo un momento di scambio di informazioni, ma un momento privilegiato per prendere in considerazione i disagi anche sul piano emotivo del collaboratore. Ovviamente non considerati negli aspetti di vita personale, ma come messaggio analogico da decodificare in funzione della vita organizzativa.
Dal momento che il sistema è circolare, in qualsiasi punto si registrino degli eventi, i loro effetti possono fare il giro del sistema per riprodurre nuovi cambiamenti nel punto di partenza.

La Posizione Esterna

Quando un’azienda si trova in situazioni critiche che richiedono una nuova struttura organizzativa, l’azienda per lo più si rivolge ad un consulente aziendale esterno.
Il primo rischio per il consulente esterno è quello di entrare in una situazione conflittuale e di trovarsi schierato a sua insaputa (Selvini e coll. 1981). Il secondo rischio consiste nel continuare a parlare di progetti senza parlare di conflitti, dando per scontato che ci sia unanimità di intenti e di voleri. Il terzo rischio è quello di dover coinvolgere nella soluzione proprio i manager che si considerano estranei al problema per il quale il consulente è stato chiamato.
Anche questa è una situazione paradossale che rende incerta l’identità di mediatore. Da un lato egli è il consulente, quindi il competente a cui viene richiesta una soluzione, dall’altro, la soluzione può essere trovata solo se c’è la disponibilità del committente a far emergere le polarità che sono all’origine del problema per cui il consulente è stato chiamato. In questo caso il consulente è in trappola se continua a comportarsi da competente: la sua funzione, infatti, è quella del facilitatore, ovvero di colui che aiuta la competenza degli altri a trovare la soluzione per cui è stato chiamato.
In che modo il consulente esterno può lavorare per giocarsi fruttuosamente la sua posizione?
Innanzitutto non può non condividere la richiesta esplicita del committente, tuttavia a poco a poco deve ristrutturare il modo con cui essi pensano alla sua prestazione. E’ come se implicitamente egli dicesse: “proprio perché condivido la necessità di raggiungere l’obiettivo che mi proponete, ho bisogno della vostra cooperazione per individuare le polarità intorno alle quali costruire la nuova organizzazione aziendale”.
Solo quando ha ottenuto il consenso su questo patto relazionale si può considerare costituito il setting di mediazione.
Anche nelle richieste aziendali di formazione può esserci implicita la richiesta di trattare dei conflitti. Nulla vieta che, pur mantenendo il contratto formativo, al suo interno si possa pragmaticamente concordare un setting di mediazione che tratti il conflitto per il quale si è stati implicitamente chiamati.

Conclusione

Per concludere, possiamo dire che, quando in un’organizzazione il conflitto produce sofferenza personale e organizzativa, c’è richiesta di mediazione, ma è una richiesta criptica, nascosta dietro richieste di altro tipo: consulenza, formazione o ancora richieste di soluzione di questioni pratiche. E’ possibile fare un buon lavoro di mediazione, ma ogni volta va costruito il setting, sia che si operi dall’interno del sistema sia che si operi dall’esterno come consulente o formatore. In specifico, per quanto concerne il lavoro sulla cultura della mediazione, tipico requisito del dirigente ai vari livelli, non è tanto necessario un setting specifico, ma la chiara consapevolezza delle cornici entro le quali si opera e l’agilità nel modificarle.


BIBLIOGRAFIA
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  • Gadamer G. H. (1983) Verità e metodo, Bompiani.
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